Ghezzi vuol dire Varese, struscio sotto i portici, negozi di famiglia, torta la domenica, cioccolata calda mentre fuori nevica(va). Vuol dire meringhe con la panna, pan d’anice e meìno, marron glacés e panettone, cammello di sfoglia e, un tempo, la vetrina coloratissima con i fondant, puntuale per l’8 dicembre, data ufficiale d’inizio Natale. La pasticceria più celebre della città è lì dal 1919, ma il laboratorio, un tempo del signor Vanetti, sta al terzo piano della casa dal 1880, come volle mantenerlo Carlo Ghezzi, che era stato aviatore, perché impastando dolci voleva «vedere il cielo e il Sacro Monte».
Una visione romantica del lavoro quella di Carlo, incominciato a Milano in pasticcerie leggendarie come Marchesi e Le Tre Marie, con i fratelli Angelo e il gemello Fortunato, la mente creativa, di cui si conserva ancora il ricettario. Parlare di Ghezzi vuol dire sentirsi trasportare nel tempo, con un negozio ancora intatto, i lampadari dello stesso fornitore del Teatro alla Scala e le luci delle vetrine appartenenti ai vecchi tram milanesi, la boiserie, l’insegna esterna e quella sul vetro della porta che indica «the caffè liquori».
Corso Matteotti non è più quello glorioso e familiare degli anni d’oro, con nomi come De Micheli, Valenzasca, Bertoni & Puricelli, Mentasti, Zamberletti, Chicherio e Buzzetti, solo per dirne alcuni, ma la pasticceria per fortuna resiste, condotta con maestria da Gabriela Ghezzi e dal marito Michele Marelli e dai figli Matteo e Pietro, dopo che la leggendaria signora Maria Caterina Cerovaz in Ghezzi, moglie di Martino, e Giovanna Ghezzi sua sorella, sono andate in pensione.
I tempi cambiano, così come le specialità pasticcere, e l’anno prossimo Ghezzi compirà 100 anni, perché l’attività pasticcera partì ufficialmente solo nel 1926, ma intanto il negozio è già stato riconosciuto come “Attività storica” dal comune di Varese e recentemente anche dalla Regione Lombardia.
«Una volta noi commercianti ci conoscevamo tutti, le attività erano a conduzione familiare e a Varese le pasticcerie erano tre, noi, Zamberletti e Pirola, i clienti andavano da tutte, magari per i pasticcini da noi, per l’aperitivo da Pirola e da Zamberletti per il Dolce Varese. Oggi la città ha perso l’identità, e anche la clientela è in parte cambiata. Ai tempi di papà Martino era in media più anziana, oggi arrivano anche tanti ragazzi, ma non conoscono le specialità di allora, come la cotognata, o i minuscoli biscotti “pazientini”, che oggi non produciamo più. Io ho insegnato educazione fisica a Milano, in una scuola prestigiosa, poi sono venuta in negozio, dove lavoro al banco e alla cassa, mentre mio figlio Matteo, 30 anni, è un jolly, un po’ sta in negozio e un po’ in laboratorio ad aiutare il fratello Pietro, di 26 anni, il pasticcere, e papà Michele. Siamo una famiglia di sportivi, mio padre Martino è stato campione nazionale di ginnastica artistica e mio suocero Sergio Marelli, della dinastia di mobilieri, tra i fondatori della Pallacanestro Varese e portabandiera della nazionale alle Olimpiadi di Helsinki», racconta Gabriela Ghezzi.
Il tempo è tiranno, e la vetrina natalizia con i fondant di tutti i colori purtroppo è un ricordo dei più anziani: «Mio marito Martino incominciava la preparazione subito dopo il 2 novembre, suo zio Fortunato, ma anche lui, aveva realizzato gli stampini in gesso per colare lo zucchero. Era una lavorazione lunghissima, oggi impensabile, si stava su di notte e si dormiva al secondo piano, dove avevamo sistemato una camera da letto. Ci volevano due giorni per mettere in fila i fondant e sistemarli in vetrina, i clienti arrivavano da fuori, un signore di Milano ne prendeva uno per tipo per allietare la tavola natalizia», dice Maria Cerovaz, classe 1940, che prima di lavorare in pasticceria era impiegata alle Poste di Saronno e poi in quelle di via del Cairo a Varese e ha trascorso 50 anni tra pasticcini e caffè.
Il lavoro era febbrile anche per preparare i marron glacés: «Le castagne arrivavano da Sorrento, la sera, dopo la chiusura, ci mettevamo a sbucciarle, dopo che le avevamo cotte su un supporto di vimini, divise a strati da un telo di juta. Poi c’erano i panettoni due volte la settimana, le veneziane e, all’Epifania, il cammello, che un tempo era una tradizione solo varesina».
Interviene Gabriela: «Pare che da Varese fossero passate le reliquie dei Re Magi, così si pensò di render loro omaggio con un dolce. Fu il pasticcere Bosisio a prestarci gli stampi per cuocere il cammello, che in realtà è un dromedario, ha una sola gobba». La signora Maria invece, ricorda altre specialità dimenticate: «Per esempio i “Manus Christi”, caramelline di zucchero alla menta e alla frutta che una volta erano incartate dalle suore. Facciamo ancora il Pan meìno, per la festa di San Giorgio, va mangiato intinto nella panna liquida ed è un dolce sostanzioso, ci vogliono burro, uova, farina gialla e bianca e una spolverata di fiori di sambuco».
Da Ghezzi arrivano in tanti per la colazione del mattino, con le mitiche brioches, impastate la sera e cotte il mattino presto, con la marmellata ai petali di rosa, «tagliata con quella di albicocca per spezzarne un po’ il gusto», poi le meringhe in inverno, il pasticcino Belle époque, il pan d’anice, la crema cotta. «Facciamo ancora i boeri con le ciliegie messe da noi sotto spirito, le scorzette d’arancia candite, i pasticceri attaccano alle 4 e mezzo del mattino e noi apriamo alle 8, i nostri punti di forza sono ancora la sfoglia e la frolla, fatte secondo la ricetta di nonno Carlo, che era aiutato in negozio dalla moglie Rosetta», aggiunge Gabriela Ghezzi.
Da Ghezzi è passato il mondo, e i clienti illustri non si contano. Da Gabriele d’Annunzio al generale Cadorna, ad Alfredo Binda, fino a Guido Piovene che si faceva fare apposta una torta al cioccolato, ma al primo tavolo a destra entrando si sedeva sempre Guido Morselli: «Era taciturno, scriveva e prendeva un caffè, poi passava le mezz’ore al telefono che avevamo appeso al muro, spesso con gli editori che rifiutavano i suoi manoscritti. Ricordo accanto a lui la signora Bassi, l’amica del cuore. Piero Chiara passava ogni tanto ma preferiva Zamberletti, poi il marchese proprietario di villa Craven, e donna Vittoria Mozzoni, la signora Malerba si faceva fare un cammello di sfoglia e lo apriva riempiendolo di panna. Abbiamo sempre avuto una clientela scelta», spiega Maria Cerovaz Ghezzi.
In tempi recenti ecco Linus, Fernanda Pivano, Filippa Lagerback, e Carlo Verdone, arrivato a prendere il caffè con Mauro Della Porta Raffo e Attilio Fontana, come testimonia una fotografia gelosamente custodita dalla signora Maria.
Alla quale abbiamo rivolto la domanda d’obbligo: «Ma in un tempio del gusto come questo, come faceva a resistere alla tentazione di mangiare continuamente dolci?», Risposta: «Non resistevo».
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