Dall’inizio della campagna elettorale non c’è singolo candidato sindaco o consigliere comunale che non abbia tirato in ballo lo spauracchio dell’astensionismo. È il nemico numero uno, specie per quelle sacche di voto meno ideologico, meno convinto, meno radicale. I votatori occasionali, quelli che si muovono solamente in caso di situazioni particolarmente delicate o qualora in campo ci fosse un candidato capace di attirare il loro interesse.
L’affluenza alle urne, che sia per le comunali, per le regionali o per le politiche, in Italia è in costante calo. Per non parlare dei referendum, ormai finiti sotto silenzio. E Genova, ovviamente, non fa eccezione.
Nelle ultime tre tornate elettorali comunali, il numero dei votanti è in costante discesa.
Nel 2012, quando fu eletto Marco Doria, ultimo sindaco di centrosinistra, al primo turno andarono alle urne il 55,52% degli aventi diritto, al ballottaggio il 39,08%.
Poi l’inizio dell’era Marco Bucci e del centrodestra. Nel giugno del 2017 al primo turno l’affluenza fu del 48,39% e al ballottaggio del 42,67%, mentre nel 2022 Bucci si impose al primo turno con un’affluenza del 44,14%.
Un trend discendente che, nelle ultime due tornate, ha visto la percentuale degli elettori allontanarsi sempre di più dal 50% che ora, almeno a parole, sembra il nuovo obiettivo dichiarato da parte di chi dovrebbe in qualche modo spingere i genovesi alle urne.
Per trovare l’ultimo incremento tendente al positivo, bisogna andare indietro all’inizio del nuovo millennio: nel 2002 fu al 60,03% (vinse Giuseppe Pericu) e nel 2007 del 63,24% (fu eletta Marta Vincenzi).
Cifre oggi inimmaginabili, nell’epoca in cui già il 50% sembra una chimera.
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