«Perché Smile? Perché io sono sempre sorridente, anche dopo tutto quello che mi è successo. È il sorriso ad avermi salvato nella vita».
Ahmed Abdelhafez lo dice in fondo a una lunga chiacchierata, quasi un’ora e trenta seduti in quel cortile che presto vorrebbe far diventare una funzionale appendice del suo ristorante pizzeria («Ma quanta burocrazia…») e un provvidenziale ombrellone a ripararci da uno dei tanti acquazzoni a puntate dell’ultimo maggio varesino.
Dopo averlo ascoltato, di parole non ce ne sono più. Nostre almeno di sicuro, sue forse ancora qualcuna: «E non vi ho raccontato nemmeno la metà di quanto mi è accaduto…» evoca di nuovo questo ragazzo egiziano che a soli 28 anni ha già catalogato nelle profondità del suo io gli avvenimenti, le disgrazie, le discese e le risalite di sette vite messe insieme.
Ora che anche a noi è stata data la possibilità di seguirne il filo, di prendere il capo di questa storia iniziata più o meno 20 anni fa e di arrivare fino all’altro, cioè a oggi, quel sorriso che fa capolino sui suoi tratti nordafricani è un pugno più che un premio, un pugno di quelli che una volta anche lui tirava sul ring, forse immaginando di avere davanti e di colpire il gravoso passato che era stato costretto ad attraversare.
È un pugno che ti rovescia dalla tua comodità, dalla tua esistenza fortunata e “normale”, dalla tua pigrizia, dalla pappa pronta che hai sempre mangiato. È un pugno che ti costringe a interrogare te stesso con una domanda tanto semplice quanto tremenda: ma tu, del tuo destino, cosa ne stai facendo?
Senza un papà
Perché Ahmed il suo lo ha accettato, ma non gli ha mai detto “prendimi”. Mai si è piegato, mai si è arreso, mai si è lasciato cullare dalle braccia del fato senza provare a reagire. E allora ecco “Smile”, locale di via Ugo Foscolo a Varese aperto da meno di un anno, dove la pizza è ottima e napoletana e la cucina è mediterranea e gustosa. Chi vi entra, però, non sa cosa ci sia voluto per arrivare sin qui, nemmeno lo può immaginare.
«Sono il quinto di cinque figli - attacca a raccontare il ragazzo, inizialmente titubante davanti a domande e richieste che invadono una sfera privatissima e gonfia di dolore, poi sempre più convinto, come se fosse uno sfogo pronto a sgorgare da tempo - e sono nato in Egitto. Mio padre un giorno ci ha abbandonato e ha messo in difficoltà tutta la nostra famiglia: mia madre, che per tanto tempo ci ha nascosto la verità, dicendo che un giorno lui sarebbe tornato, ha dovuto crescere da sola 5 figli, senza avere i mezzi per farlo: i fratelli di mio padre, che erano in società con lui, quando è sparito non ci hanno lasciato praticamente nulla. E di papà non abbiamo mai più avuto notizie».
«Non immagini quanto io abbia sofferto da bambino: non avere un padre è dura quando vedi che tutti i bambini come te possono invece goderselo. Però ho dovuto rimboccarmi subito le maniche per andare avanti, non potevo gravare sulle spalle dell’unico genitore che mi era rimasto: a sei anni già lavoravo nei campi, raccogliendo il grano, le arachidi, il cotone, i pomodori; a 8 ho fatto il piastrellista e il manovale, andando anche lontano da casa, poi l’aiuto meccanico, poi ancora il panettiere. In Egitto lo sfruttamento lavorativo dei bambini è la normalità, non ci sono regole…».
«I soldi che guadagnavo li davo a mamma per contribuire e ne tenevo anche una parte per me, almeno per comprarmi il necessario per andare a scuola. Nonostante questo non riuscivamo a far fronte nemmeno alle primissime necessità».
Ahmed capisce ben presto che le famiglie con un figlio all’estero se la passano decisamente meglio della sua e nella sua mente si fa allora spazio il pensiero di prendere la stessa strada. Ne parla con i fratelli, solo uno è d’accordo: sarà costui a fargli da garante nei confronti di chi organizza il viaggio, perché per lasciare l’Egitto gli vengono chieste 5000 euro e lui non dispone di cero di tale cifra. Ma la mafia sa attendere prima di affondare il proprio coltello nelle esistenze altrui, sa che esistono dei mezzi di coercizione a scoppio ritardato, sa che nessuno può davvero scappare alla perfida “ortodossia” dei viaggi della speranza da essa organizzati: come tutti gli altri debitori, anche Ahmed, una volta a conclusione, è destinato infatti a finire in una casa, tenuto in custodia e sotto minaccia, finché qualcuno dei suoi familiari non pagherà tutto il dovuto.
Il mare, i morti, gli spari
L’istinto primordiale di salvare se stesso e la sua famiglia da un sicuro avvenire di povertà e però più forte di tutto: si parte. Ahmed parte. Come milioni di persone hanno fatto prima e dopo di lui, da tutta l’Africa. Una differenza che rende drammatico quello che vi stiamo per raccontare però c’è: Ahmed non ha ancora compiuto dieci anni.
«”Vedrai che andrà tutto bene, avrai la tua cameretta e in due giorni saremo in Italia” mi diceva quel signore che portava la gente. Non era vero nulla. Da casa mia salii su un camion che trasportava galline insieme ad altre persone: venimmo nascosti da alcuni teli e raggiungemmo il porto. Lì venimmo caricati su tre gommoni, ognuno dei quali capace di portare 50 persone a testa. Dopo 20 minuti di viaggio raggiungemmo il largo e ci fermammo nei pressi di una nave più grande, circa 7 metri, sulla quale fummo imbarcati: nel trasbordo quattro persone vicino a me caddero in acqua e non vennero nemmeno recuperate, morendo annegate… Altre due ore di mare ed ecco finalmente il peschereccio con cui avremmo affrontato il viaggio: era lungo 27 metri, ci salimmo in 162…».
L’odissea dura 16 giorni: «Gli scafisti ci trattavano come animali, cercavano di rubarci quello che avevamo con noi, ci insultavano. Avevamo diritto a mezzo bicchiere d’acqua a testa al mattino, al pomeriggio e alla sera, e a del riso bianco che una volta al giorno mettevano in mezzo a noi in un grande piatto: quando allungavo la mano per prenderlo non c’era già quasi più nulla. Quando si formava il mare mosso ci rinchiudevano sotto coperta, sistemati come veniva: la gente vomitava bile, si disperava, piangeva. Io, buttato sulle corde o sui sacchi di riso, non dicevo nulla, non piangevo nemmeno: mentre la barca volava sulle onde, ero semplicemente rassegnato al mio destino».
«Arrivati nelle acque italiane, un gommone andò in avanscoperta per organizzare lo sbarco sulla spiaggia, ma venne intercettato e inseguito dalla Guardia Costiera italiana. I “pescatori” allora tornarono in fretta e furia sul nostro peschereggio, ordinandoci di andare a nasconderci e provando poi a scappare verso le acque internazionali. La Guardia Costiera però ci raggiunse e, non vedendo apparentemente nessuno sulla nave, iniziò a sparare, credendo di aver beccato un traffico di droga o di contrabbando, non un’imbarcazione con tanti esseri umani a bordo… Noi da sotto sentivamo gli spari: sembrava una scena da film…».
«Alla fine ci hanno speronato, fermato e sono saliti sull’imbarcazione: hanno preso i “pescatori”, li hanno arrestati e ci hanno liberato, quindi ci hanno fatto sbarcare a Catania, portandoci subito in un centro di accoglienza».
Ahmed chiama la madre, che ancora non sa del suo arrivo e, se è per quello, nemmeno della sua effettiva partenza. Esce dal centro di accoglienza e i primi giorni li passa a camminare, senza una meta («Arrivai persino in autostrada, senza rendermene conto: non sapevo nemmeno cosa fosse un’autostrada»), aiutato da qualche anima pia che incontra sul suo cammino Nell’elastico delle mutande, a prova di furto, sua mamma gli aveva cucito l’equivalente di 100 euro, probabilmente tutti i risparmi che aveva. Sono gli unici soldi di cui questo bambino di 9 anni, solo in una terra straniera, dispone. E lui sa bene come usarli: «Nella mia testa avevo in mente solo una cosa: iniziare a lavorare. Così, con quel denaro, sono partito per Milano, dove avrei provato a intercettare un cugino di famiglia».
In undici in un bilocale
No, non è la salvezza, né il lieto fine di questa vicenda ancora lunga. È un altro baratro: «Quell’uomo mi sistemò in un bilocale insieme ad altri 11 immigrati, la metà clandestini come me, e ci chiedeva 150 euro a testa al mese. Tutti i miei inquilini andavano a lavorare al mercato e così feci anch’io: alle 3.30 del mattino prendevo e mi mettevo in fila insieme agli altri, a San Donato, a Lima, a Pasteur; chi aveva bisogno arrivava e sceglieva la manodopera, però toccava sempre a tutti tranne che a me, perché ero troppo piccolo e fragile. Io però non demordevo e continuavo a girare tra i banconi: alla fine mi prese un marocchino, forse impietosito dalla mia giovane età, per sistemare le scarpe sul suo banco».
Tutto quel (poco) che guadagna, Ahmed lo dà al “cugino” per la casa: «Segnava ogni cosa: mangiare, bere, affitto. Mi chiedeva indietro tutto. A un certo punto propose alla mia famiglia uno scambio: per 10 mila euro mi avrebbe preso in affido… Ovviamente non se ne fece nulla, anche perché un giorno, mentre lavoravo in nero in una pizzeria, le autorità italiane mi beccarono e mi trasferirono in una comunità per minori».
Per lui - piccolo, solo, totalmente inconsapevole, senza una parola di italiano nel suo vocabolario - è come se si aprissero le porte di un’altra prigione: «Entravo e scappavo, mi rimettevano in un’altra comunità e scappavo ancora. A un certo punto ho provato anche a fuggire in Francia, dove abita mio zio, ma sono stato fermato alla frontiera di Ventimiglia e riportato a Milano. Andò avanti così finché qualcuno, grazie a una traduttrice, non mi spiegò che potevo avere dei diritti, che la comunità mi avrebbe permesso di imparare l’italiano, di studiare e di ottenere i documenti».
È il primo, vero, raggio di luce che illumina la strada di questo bambino. La sua nuova “casa” diventa allora Novara, dove frequenta le scuole medie, studia la lingua di Dante e ottiene il permesso di soggiorno. A 14 anni viene spostato a Varese ed entra per la prima volta in contatto con la nostra città. Qui frequenta l’Itis Newton, fino alla terza superiore: «La scuola mi piaceva tantissimo ed ero anche bravo, ma quando compii 18 anni e capii che potevo iniziare a lavorare davvero, la lasciai. Ho preso impiego in diverse pizzerie del centro, abitando in un appartamento con altri studenti. Nel frattempo anche mio fratello aveva lasciato l’Egitto e si era trasferito in Francia: a un certo punto lo raggiunsi e rimasi lì un anno e mezzo, lavorando come autista privato. Quando mi sono scaduti i documenti, tuttavia, sono dovuto tornare in Italia».
Cioè ancora a Varese, ormai sua città elettiva, dove per lui prende vita un nuovo pellegrinaggio esistenziale, anche se più consapevole e costruttivo rispetto a quello di prima: viene assunto da un artigiano di Solbiate Arno come programmatore CNC (controllo numerico computerizzato), facendo la gavetta; prende parte a un corso di formazione sempre nella stessa materia, tramite il quale arriva al gruppo Swatch, nelle sedi di Sesto Calende e Casorate Sempione; riprende la scuola, frequentando il serale, e arriva così al diploma, conseguito con il voto di 82/100.
«Mi manca mia madre»
In mezzo anche il pugilato, che per lui è un po’ una rivalsa: «Mi sono giocato la finale del titolo lombardo: ero molto bravo e appassionato. Pensate che la federazione mi aveva addirittura promesso la cittadinanza italiana in caso di vittoria… Ma siccome io sono sempre sfortunato, a un certo punto mi sono fatto male a una spalla, strappando la cuffia rotatoria e subendo 15 lussazioni successive. Sarei stato da operare d’urgenza, ma non avendo il contratto a tempo indeterminato avrei perso il lavoro, quindi ho convissuto tre anni con il dolore e con una spalla che mi usciva in ogni momento, persino quando mi giravo nel letto. Una volta ottenuto il contratto a tempo indeterminato mi sono finalmente operato».
Nel lavoro Ahmed si dimostra molto bravo, tanto da ricevere offerte dalla Leonardo e persino dalla Svizzera («Avrei guadagnato fino a 7000 franchi a mese, ma non avendo la cittadinanza italiana non se ne è fatto nulla…»), finché un giorno non inizia ad avere problemi con il capo del personale dell’azienda dove lavora: una situazione che in poco tempo lo porta addirittura al demansionamento… «Avevo ragione io: feci causa all’azienda e ottenni una buona uscita. Solo che a quel punto mi trovai senza impiego, finché un giorno mi chiamò un amico e mi spiegò che questo locale di via Foscolo era in vendita. Sapendo che avevo qualche soldo da parte mi propose di comprarlo: così ho fatto, aiutato da uno dei miei fratelli».
Lo chiama Smile, come quel sorriso che nonostante tutto non ha mai perso: «Ho vissuto dei momenti davvero tristi nella mia vita - sono le ultime parole che escono dietro a quel sorriso, alla conclusione della nostra chiacchierata - momenti in cui mi sono chiesto perché la vita mi aveva privato di mio padre fin da piccolo, momenti in cui mi sono sentito lontano da tutti, momenti in cui non mi rimaneva altro che piangere… Ma cosa ci potevo fare? Era quello il mio destino… Se guardo dove sono arrivato sono orgoglioso di me stesso: non sto mai fermo, lavoro 14 ore al giorno, ho una pizzeria, do un impiego ad altre persone, sono riuscito a fare il mutuo per prendere una casa. C’è solo una cosa che mi rende ancora molto triste: non vedo mia madre da 18 anni e lei soffre molto. Il ricongiungimento? Non è possibile, perché ha 56 anni e non almeno 70 come previsto dalla legge. In Egitto non sono più tornato, perché mi fermerebbero all’aeroporto e mi porterebbero a fare il servizio di leva militare. E poi io ormai mi sento solo italiano: sono cresciuto qui, la mia vita è qui. Mi manca solo la cittadinanza: se l’avessi sarebbe tutto diverso…».
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