I casi di violenza sulle donne? Sono sempre di più quelli che finiscono tra le notizie di giornata: una sequenza sempre più lunga, che quasi quotidianamente si intreccia a minacce, persecuzioni e altri comportamenti pericolosi. Torino e provincia sono solo una porzione della cornice all'interno della quale il fenomeno si sta mostrando in tutta la sua dimensione.
E non può lasciare indifferenti il fatto che questa tendenza si accompagni al lockdown, dunque a situazioni di sofferenza sociale, economica e convivenze forzate tra le mura domestiche. "Si tratta della punta di un iceberg", spiega Paola Maria Torrioni, sociologa della famiglia dell'Università di Torino e responsabile del progetto "Varco", che proprio a Unito - primo ateneo in tutta Italia - ha permesso di aprire uno sportello antiviolenza all'Università. "Ma è un iceberg che in realtà potrebbe essere diventato di ancora più grosso, proprio a causa di questi mesi di pandemia".
E' stato così fin dall'inizio della pandemia?
"Diversamente da quanto si possa pensare, all'inizio del lockdown le segnalazioni e le richieste d'aiuto non sono affatto aumentate in maniera esponenziale. Anzi: sono diminuite, anche con punte del 50%. Questo è accaduto perché le donne, costrette a casa con il loro maltrattante, non avevano nemmeno più la valvola di sfogo del lavoro o del fare la spesa per recarsi al centro antiviolenza per chiedere aiuto".
Quindi, se da un lato il lockdown ha fatto da "tappo", dall'altro ha finito per alimentare dinamiche distorte e pericolose?
"Sì, perché oltre alla convivenza forzata, la pandemia ha rinforzato altri fattori scatenanti della violenza come lo stress, oppure la perdita del lavoro. E tutto questo non ha trovato aiuto finché non sono cambiate le dinamiche con cui la rete di ascolto e soccorso si è riavvicinata alle vittime della violenza: attraverso gli strumenti digitali, le chat, le videochiamate, ma anche le farmacie, che sono diventate un nuovo punto di ascolto. Da quel momento in poi sono tornate a emergere le richieste di aiuto, per una situazione che si è fatta sempre più esplosiva".
Con le antenne sul territorio, però, si sono adattati anche gli strumenti di tutela? "Molti centri antiviolenza hanno ristrutturato le case di accoglienza, prevedendo anche un'area triage proprio per il rischio-Covid. Ma in alcune province d'Italia si è provveduto anche a imporre lo spostamento del maltrattante in un altro domicilio e non più della vittima".
Ma se ora il fenomeno è più visibile, l'iceberg sommerso potrebbe essere cresciuti di dimensioni?
"Non esiste un identikit dell'uomo violento: è un problema trasversale al di là della condizione sociale, economica o culturale. Di certo, rispetto agli anni Ottanta, ora finalmente si è preso coscienza del fenomeno e si è iniziato a chiamare le cose con il loro nome, il femminicidio, cioè un omicidio in cui alla base c'è la pulsione dell'uomo a rimarcare un possesso sulla donna".
Tra gli altri effetti negativi della pandemia nel rapporto uomo-donna, però, non ci sono soltanto i casi di violenza.
"Si stanno alimentando anche vecchi stereotipi, come la necessità del lavoro domestico, quello che una volta si chiamava il focolare. Ecco, questo è sicuramente un passo indietro lungo il cammino dell'emancipazione e rischia di sviluppare dinamiche negative".
Cosa c'è da fare, dunque?
"Tenere desta l'attenzione, fare ascolto e prevenzione, ma oggi fortunatamente ci sono anche più strumenti per poter intervenire, non solo sulla violenza fisica, ma anche su quella psicologica o economica, che a volte sono meno visibili, ma altrettanto pericolose. Si può fare molto anche lavorando sugli uomini: qui sul territorio esistono associazioni come Maschile plurale che può aiutare quelle persone che sentono di avere dei problemi nella gestione dell'aggressività e del rapporto con il mondo femminile. E' un problema molto più diffuso di quanto non si pensi".
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