Una lettera aperta sugli arbitri che arriva da un allenatore del settore agonistico di una squadra della nostra provincia. Una riflessione forte e senza giri di parole, ma che arriva dal campo e che, quindi, merita di essere discussa e posta all'attenzione dei lettori e di chi ama il calcio. Che ha visto il fischietto «diventare un’arma e non uno strumento di giustizia» e il cartellino utilizzato per «ribadire un’autorità, invece di regolare una partita». Troppi arbitri, secondo il nostro allenatore, sembrano «non capire più le emozioni del campo» e gestiscono tutto con freddezza «o peggio arroganza, chiudendo ogni spazio di dialogo». E quando si prova a imbastire una discussione - come questa - su di loro, «la risposta è sempre la stessa: “Ci sono pochi arbitri, è già buona che ci sono questi. Questi atteggiamenti sono figli della violenza”». Violenza che il nostro tecnico, come tutti noi, «condanna sempre, senza eccezioni».
Resta l'amarezza nel vedere «ragazzi di 15 anni che giocano, che hanno la personalità di avvicinarsi a un arbitro adulto a chiedere spiegazioni, e vengono cacciati in malo modo», alimentando «un sistema di comando che si protegge da sé». «Ci sono ragazzi che ormai hanno praticamente solo lo sport come unico momento di condivisione e di libertà dopo giornate vissute dentro un mondo virtuale che prendono 4 giornate per un "vaffa" che scappa. E noi educatori a cercare di tamponare, di intervenire, di aiutare, di supportare, di far capire, ma ci rendiamo conto?». In questa lettera aperta c'è un appello forte: «La Figc non può continuare a voltarsi dall’altra parte. Servono investimenti veri per l’Aia, non per coprire gli errori, ma per formare meglio gli arbitri. Per insegnare loro la gestione delle emozioni, la comunicazione, la capacità di leggere le partite e le persone. Perché il calcio non è solo regolamento: è empatia, equilibrio, senso del momento». Quindi, la conclusione: «Io non ce l’ho con gli arbitri, anzi. Non è un caso che chi ha fatto o farà carriera si approccia sempre nel modo giusto. Ce l’ho con un sistema che li lascia soli, deboli, eppure intoccabili, che vanno spesso oltre il comando. Che li spinge a rifugiarsi dietro il potere invece che dentro il dialogo. Non padroni in divisa, ma servitori del gioco».
La lettera inviata a VareseNoi
Scrivo per attirare la Vostra attenzione su un tema delicato. Voglio parlare di loro, degli arbitri. Di una figura che, per ruolo e responsabilità, dovrebbe incarnare equilibrio e rispetto. Ma troppo spesso oggi rappresenta l’opposto: distanza, rigidità, eccesso di potere.
Non è una caccia al colpevole, sia chiaro. L’arbitro sbaglia come tutti: l’errore fa parte del gioco, lo accettiamo. Ma l’errore non è il problema. Il vero problema è quando la gestione diventa qualcosa che va oltre il comando e sfiora l'egemonia, quando il fischietto diventa un’arma e non uno strumento di giustizia. Quando il cartellino serve a ribadire un’autorità, non a regolare una partita.
C’è una mancanza evidente di comunicazione, di sensibilità, di capacità di leggere il contesto. Troppi arbitri sembrano non capire più le emozioni del campo: gestiscono tutto con freddezza o, peggio, con arroganza o, peggio, con la deleteria voglia di comandare. Eppure, il calcio è fatto di emozioni. In panchina e in campo non ci sono robot: ci sono persone, sacrifici, lavoro, anni di dedizione. C’è la voglia di far crescere ragazzi sotto ogni aspetto: tecnico, umano, educativo.
Quando un arbitro spezza questo equilibrio, quando chiude il dialogo, quando si mostra impermeabile anche al rapporto umano invece che autorevole, ferisce una parte di quel lavoro. Creare inventati ed esagerati attimi di paura, sentirsi a rischio per un semplice scambio di pareri, agitare i cartellini come sfida, usare la voce con tutto quasi intimidatorio invece che come un'"ammonizione": tutto questo è deleterio e finto. Chi si aggrappa a questi atteggiamenti non rispetta lo sport.
Eppure, ogni volta che si solleva il tema, la risposta è sempre la stessa: “Ci sono pochi arbitri, è già buona che ci sono questi. Questi atteggiamenti sono figli della violenza”. È la frase con cui si chiude ogni discussione, il paravento dietro cui ci si nasconde. Ma la carenza numerica non può diventare un alibi per nascondere la realtà e le mancanze. Come non può esserlo la violenza, che va condannata sempre, senza eccezioni. Ma attenzione: la violenza la commettono i criminali, non chi ama il calcio, lo rispetta e pretende solo equità.
Chi se ne frega del fuorigioco non visto, chi se ne frega del gol annullato, chi se ne frega, non sono quelli i problemi. Venire espulsi per richieste di spiegazioni, essere portati a reagire da un atteggiamento spropositato di sfida e di superiorità insindacabile. Come a dire “qui sono io che comando, tu non puoi aprire la bocca”. E non è un episodio isolato, ma il sintomo di un sistema che da anni si protegge da sé. Non parlo dei ragazzini minorenni che vengono lanciati sui campi senza una guida, senza un sostegno, senza nulla. Loro sono solo vittime di un sistema che non funziona. Parlo di maggiorenni e vaccinati che sanno bene come incidere e come agire.
Ragazzi di 15 anni che giocano, che hanno la personalità di avvicinarsi a un arbitro adulto a chiedere spiegazioni, e vengono cacciati in malo modo, con lo sventolio dei cartellini, quello che fa sentire forti, potenti, a volte realizzati. Ragazzi che hanno solo lo sport come unico momento di condivisione e di libertà dopo giornate magari passate dentro un mondo virtuale che prendono 4 giornate per un vaffa che scappa. E noi educatori a cercare di tamponare, di intervenire, di aiutare, di supportare, di far capire, ma ci rendiamo conto? Quattro giornate! Un mese o più lontano dal campo. E poi magari per un pugno all’avversario? Quattro giornate! Un vaffa (che può scappare a un ragazzino adolescente) paragonato a un atto di violenza. Violenza è violenza, contro chiunque, e va punita: contro un avversario così come contro un arbitro. Ma serve proporzione in ogni angolo del codice di giustizia sportiva.
La FIGC non può continuare a voltarsi dall’altra parte. Servono investimenti veri per l’AIA, non per coprire gli errori, ma per formare meglio gli arbitri. Per insegnare loro la gestione delle emozioni, la comunicazione, la capacità di leggere le partite e le persone. Perché il calcio non è solo regolamento: è empatia, equilibrio, senso del momento.
Io non ce l’ho con gli arbitri, anzi. Non è un caso che chi ha fatto o farà carriera si approccia sempre nel modo giusto. Ce l’ho con un sistema che li lascia soli, deboli, eppure intoccabili, che vanno spesso oltre il loro ruolo, appunto, di "arbitri". Che li spinge a rifugiarsi dietro il potere invece che dentro il dialogo.
Il calcio non ha bisogno di padroni in divisa, ma di servitori del gioco, capaci di guidare con intelligenza, non di comandare con paura. Solo così si potrà restituire dignità al loro ruolo, e rispetto a tutto il calcio. Solo così si potrà parlare di rispetto reciproco.
Solo così si potrà dire davvero che stiamo combattendo la violenza: non solo con i divieti, ma con l’educazione, la formazione e la consapevolezza di tutti.
Un allenatore del settore agonistico di una squadra della provincia di Varese













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