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Sport | 12 maggio 2023, 07:00

L'INTERVISTA - Da Varese a Varese: si è chiuso il cerchio di Marco Allegretti

Nella stagione 98/99, nemmeno diciottenne, fu aggregato ai Roosters della Stella. Venticinque stagioni dopo, a 42 anni, ha giocato il suo ultimo campionato, in cui ha fatto da chiocca al giovanissimo gruppo della Serie B di Varese Basketball. In mezzo un lungo viaggio tra serie A1 e A2, fino allo stop di pochi giorni fa. «La pallacanestro è sempre stata la mia vita. Rimarrò nell’ambiente, voglio trasmettere tanto ai giovani. La Openjobmetis, con il budget che aveva, ha fatto miracoli. Il compagno a cui sono più legato? Daniel Farabello»

L'INTERVISTA - Da Varese a Varese: si è chiuso il cerchio di Marco Allegretti

Da Varese a Varese, con in mezzo due decenni abbondanti di parquet calcati in giro per l’Italia. Da giovanissima ala del vivaio biancorosso coinvolta regolarmente negli allenamenti della squadra della Stella a veteranissimo di un gruppo giovane come quello della Serie B di Varese Basketball.

Ha appeso le scarpe al chiodo Marco Allegretti, nato ad Angera 42 anni fa, dopo aver giocato la sua ultima partita, sul campo di Oleggio, domenica scorsa. Come dicevamo, carriera partita dalla Varese dei grandi, lasciata nel 2006 per altri lidi, e terminata nella Varese di coloro che magari grandi saranno un giorno.

Dopo oltre vent’anni di carriera, che effetto fa non essere più un giocatore di pallacanestro?

Fa un po’ strano. La pallacanestro è parte della mia vita da quando sono ragazzino, ho fatto tutta la trafila del settore giovanile di Varese, partendo dal minibasket. Lo faccio da quando ho 10 anni, per cui non ho fatto nient’altro, fino a oggi è stata il 100% della mia vita. In questo momento non me ne sto rendendo conto. Quando sono tornato a Varese avevo 38 anni, pensavo di fare un anno che poi sono diventati quattro. Poter chiudere la carriera nella città dove sono cresciuto è bello, gli ultimi anni li ho vissuti serenamente in modo molto rilassato e piacevole. Adesso non me ne rendo conto, ma quando in agosto non ci sarà preparazione da fare cominceranno i primi pensieri e le prime sensazioni negative. Lo sapevo, ma sono sereno.

Flashback: è la stagione 98/99 e il Marco Allegretti quasi diciottenne si allena regolarmente con la squadra che poi vincerà lo scudetto. Ricordi e sensazioni legati quell’annata?

Quell’anno era il primo in cui ero aggregato alla prima squadra, iniziavo a vedere il mondo del basket professionistico. Ho avuto la fortuna di vedere un anno fantastico, spettacolare, con giocatori fortissimi. Ogni allenamento era una cosa pazzesca, ogni volta che mi dicevano "Vieni che ti alleni con la Serie A" era fantastico, con giocatori come Poz, Menego, Mrsic, Santiago e tutti gli altri, tutti campioni incredibili. Era il massimo e da lì è nato il sogno di poter giocare con loro e diventare bravo come loro. Sicuramente mi ha dato tanto vedere da vicino un’annata così positiva.

Le prime stagioni "vere" in maglia Varese arrivano tra il 2002 e il 2006 con allenatori Beugnot, Rusconi, Cadeo e Magnano. Com’era giocare con la maglia di Varese e da quale coach ti sei sentito più valorizzato?

Sono stati anni tormentati dopo lo scudetto, in cui si faceva fatica a raggiungere i playoff e c’era un via vai di giocatori. Sono stati anni non facili, da varesino, in un periodo difficile, non era un ambiente ideale e cambiando tanti allenatori non c’era tempo per programmare. Ma mi sono serviti per crescere, si giocava con pressione, tutti quelli che arrivavano volevano fare bene e dovevi dimostrare di poterteli guadagnare i minuti: lì ho capito cosa vuol dire essere professionista. Cadeo come è entrato ci ha dato un sacco di spazio a noi italiani; di Magnano ho un bel ricordo, giocavo poco all’inizio, ma a livello di allenamento era esigente, mi sono allenato bene e tanto, vedevo che aveva fiducia in me e mi dava spazio; con Beugnot ho lavorato per poco tempo, giocare con lui non è stato facile, ma è una persona ottima che mi ha spronato tanto.

C’è una partita che ricordi in particolare più delle altre?

Mi ricordo una partita a Roma dove vincemmo, giocai molto bene e marcai Bodiroga, che era uno dei miei idoli. La sera prima Hafnar non stava bene, io ho avuto minutaggio e abbiamo vinto. E poi in casa, appena arrivato Cadeo, contro Napoli. Era la prima in cui giocavo 20/25 minuti e feci molto bene. Ricordo anche un derby vinto a Cantù al supplementare in cui feci due o tre cose importanti nell’overtime.

E da lì è iniziato un girovagare per l’Italia: Ferrara, Venezia, Napoli, Chieti, Cagliari. C’è un posto che ti è rimasto nel cuore più di altri?

Ferrara sicuramente è stato un punto di partenza importante. Via da Varese mi sono messo in gioco per diventare un giocatore vero, ripartendo dall’A2. È stato uno step importante, avevo tanti minuti e giocavo in quintetto in un ambiente sereno dove si lavorava bene. Sono stati tre anni positivi: ai playoff al primo anno perdemmo contro una Pesaro fortissima, e l’anno dopo siamo saliti. Anche la stagione dopo in A1 feci bene, un ottimo campionato con un buon minutaggio.

Fino al ritorno a Varese, sponda Robur, nel 2019. Scelta legata a…

Avevo un’età in cui iniziavo a essere un po’ stufo di girare. Poi mia moglie era incinta e ci tenevo che mio figlio Riccardo nascesse a Varese, anche per avere vicino le famiglie. Ho deciso di non girare più e sono stato fortunato che la Robur mi abbia accolto a braccia aperte, potendo ancora divertirmi e dandomi la possibilità di scegliere quando smettere.

E siamo tornati a oggi: il ragazzo quasi diciottenne del 98/99 ha praticamente fatto da chioccia al giovanissimo gruppo di Varese Basketball del campionato di Serie B. Come ti sei sentito in questo ruolo?

È stato un po’ particolare perché alla fine ero l’unico veterano in un gruppo di ragazzi molto giovani. Nelle stagioni precedenti, a Cagliari, era stata fatta una squadra giovane però eravamo io e altri tre a fare da chioccia. Qui non è stato facile, un gruppo di ragazzi molto giovani che magari giocano ancora una pallacanestro da settore giovanile, e probabilmente ero io a dovermi adattare a loro. Poi non ci si riusciva sempre ad allenare tutti insieme, non siamo riusciti a creare un gruppo unico. Si è cercato di fargli capire l’importanza del passaggio da settore giovanile alla Serie B, ma ci vuole tempo e magari qualche senior in più. Io ho accettato con entusiasmo la cosa, ti diverti e ti permettono di rimanere giovane di testa. Cercavo sempre di parlare con qualcuno di loro, dovranno fare un salto di qualità. Zhao ha fatto un campionato importante ed è molto talentuoso, Assui è uno dei più interessanti, ha giocato ottime partite.

Che idea ti sei fatto del progetto Varese Basketball e di questo "gemellaggio" tra le due principali società della città?

È stato uno dei motivi che mi ha spinto a giocare anche quest’anno a Varese. Si è sempre fatto fatica a mettere insieme le due società, e spesso le cose non sono andate per il verso giusto. Ora sembra che il progetto tenga e le cose vadano bene. Tutte e due le società hanno una tradizione forte sul settore giovanile, unirli è ambizioso e permetterà a molti ragazzi di allenarsi con più gruppi, dalle giovanili alla Serie B e alla Serie A e di confrontarsi con giocatori di diversi livelli. Poter pescare dal bacino del settore giovanile è importante e ti permette di lavorare su più fronti. È un progetto interessante e speriamo vada avanti il più a lungo possibile. Questo era l’anno 0, alcune cosa vanno sistemate, ma è normale sia così.

Cosa ne pensi del gioco che la Openjobmetis ha messo in campo quest’anno?

Sicuramente è stato un anno fantastico e rivoluzionario. Ha portato un gioco che in Italia non si era mai visto, con uno stile che non si era mai esplorato. Una rivoluzione, quando si hanno idee nuove è difficile vedere un cambiamento così radicale, ma ha funzionato e ci hanno fatto vedere che avere un’idea solida e concreta funziona. Sono partiti con questa cosa in testa e hanno avuto ragione, hanno preso i giocatori giusti e hanno fatto divertire tantissimo la gente, lo dimostrano tutti i sold-out del palazzetto e la festa in piazza Monte Grappa. Con il budget che avevano hanno fatto miracoli.

Appese le scarpe al chiodo, cosa ti aspetta ora?

La pallacanestro è la mia vita e rimarrò nell’ambiente. Ho fatto il corso di allenatore e quest’anno ho già seguito un gruppo Under 14, spero sia il mio futuro. Il mio obiettivo è migliorare ogni giorno e vedere dove posso arrivare. Allenare i giovani mi piace, penso di poter trasmettere tanto e aiutarli. Vediamo nei prossimi mesi cosa succede.

Qualche rimpianto della tua carriera, magari legato anche alla tua esperienza con Pallacanestro Varese?

Con il senno di poi potrei cambiare qualche scelta, ma tutte sono sempre state molto lucide e convinte. Quando sono andato via mi è spiaciuto tanto, ma l’ho fatto perché cercavo di diventare un giocatore importante, e alla fine la scelta ha pagato. Non avrò fatto tanti anni da protagonista in A1, ma alla fine ho collezionato anche 26 presenze in nazionale: qualche soddisfazione me la sono tolta. A volte scegli una squadra piuttosto che un'altra che poi va meglio, ma è sempre un terno al lotto. Ho qualche rimpianto, ma al momento della scelta sono sempre stato convinto e sereno. Sono assolutamente contento, in quasi tutti i posti ho fatto 2 o 3 anni, vuol dire che mi hanno voluto bene.

I compagni della tua carriera in biancorosso a cui ti senti particolarmente legato?

Daniel Farabello. Mi ha aiutato tanto a Varese e poi l’ho ritrovato a Ferrara. Con lui ho avuto un bellissimo rapporto vero e sincero, un ragazzo molto intelligente. E poi Andrea Meneghin, ero un po’ il suo figlioccio quando ero piccolino. Lui e Vescovi mi avevano sicuramente preso sotto la loro ala. Erano un po' gli idoli da seguire, e nonostante mi cazziassero tanto, sono stati utili. Sono persone a cui tutt’ora mi sento molto legato.

Lorenzo D'Angelo

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