È il 1992. L’Unione Sovietica cessa di esistere, mentre l’Europa perfeziona la sua unione con il Trattato di Maastricht. In Italia un magistrato dall’italiano curioso si inventa Mani Pulite e fa crollare la prima Repubblica, mentre la mafia colpisce duro e uccide i magistrati Falcone e Borsellino. Bill Gates intanto lancia Windows e la scena musicale nostrana è dominata da Antonello Venditti e Zucchero Fornaciari. Al cinema, infine, non si può che ricordare la sempre sia lodata Sharon, che scoscia con nonchalance sulla sedia dei nostri peccati più pruriginosi.
Nello stesso anno la Rio Mare trova un nuovo modo per vendere il suo tonno in scatola: nella pubblicità da essa lanciata si vede il “fu pesce”, trasformato nella classica tortina compatta, talmente tenero da essere tagliato con un grissino. Vero o no (conosciamo gente che ha ammazzato chili di grissini prima di riuscire a spezzare le redini al pinna gialla…), a mezza Italia viene voglia di andare a comprarselo. Bingo.
La tenerezza della Varese di Bologna, invece, così tenera da essere tagliata da un grissino friabile, un improvvisato coltello non fatto di quella indubbia qualità in più posseduta degli avversari, ma del loro semplice e doveroso “impegno”, fa fumare le orecchie e piangere gli occhi. Massì, scriviamolo pure: fa incazzare come la coda in autostrada il lunedì mattina.
Dopo un - 41 scrivere di basket è quasi una presa in giro, anche se noi ci proveremo - brevemente - solo nel finale. Quando si crolla senza lottare, dietro la lavagna finiscono solo cuore e dignità. E “mazzulare” diventa l’unica cura possibile, affinché tale abominio su un rettangolo 15x28 non si veda più in questa stagione.
Perché Varese non è crollata così in basso a causa del gap di talento che pagava ai dirimpettai, ma lo ha fatto perché non ha difeso, ha camminato, ha smesso di lottare. Inqualificabile essere infilati in difesa con un taglio dietro l’altro: significa una mancanza di attenzione e di comunicazione che una squadra destinata a lottare ogni domenica non può permettersi. Inqualificabile subire un contropiede dietro l’altro senza correre: significa aver solo voglia di tornare sotto la doccia, facendo al contempo venir voglia a chi guarda di spegnere la televisione o - molto peggio per la società - di non venire al palazzetto. Inqualificabile perdere 19 palloni, se con almeno la metà di essi l’aggressività di Bologna poco è c’entrata, in luogo di mollezza e pressappochismo dei trasfertisti.
C’è una lezione che Ferrero e compagni dovrebbero aver imparato questa sera, ben più dura del punteggio finale: sono i virtussini che corrono per il campo anche sul +40. Campioni non si nasce, si diventa. Con l’esempio. Così come brocchi.
Ora possiamo scrivere di pallacanestro. Nonostante i 56 punti segnati oggi, di cui 6 (sei, six, Šeši: abbiamo messo anche il lituano, non si sa mai) nell’ultimo quarto, continuiamo a essere convinti che il potenziale offensivo alberghi in questa squadra. La mancanza di un playmaker lo distribuisce malissimo però: di risulta la prestazione pessima di Gentile (che nelle squadre “buone” finalizza, in quelle che lo sono molto meno accentra), i dialoghi cercati ma afasici e confusi tra lui ed Egbunu (con giocate prevedibili, sempre da fermo e preda dei raddoppi) e la latitanza nella manovra di Jones (solo 3 tiri) e Beane (solo 7).
Il ritorno di Kell (che deve avvenire in tempi rapidi) promette di riequilibrarlo, salvo che per un particolare: il tiro da fuori. Lo ripetiamo da agosto e ci sentiamo un po’ come la bolla di sodio in mezzo all’acqua Lete (giusto per stare in tema Carosello): soli. Perché la difesa e la grinta si ritrovano, l’attacco si costruisce e si migliora, ma il tiro o c’è o non c’è. E nella Varese 2021/2022 non pare esserci. Finora. Purtroppo.
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