Qui a Varese è “l’uomo del ghiaccio”, perché è alla sua mano ferma e ambiziosa che riconduciamo la rinascita e lo splendore dei Mastini dell’hockey.
Ma è il caldo - quello tentacolare, quello che ti si attacca ai vestiti e alla pelle - l’acquario esistenziale preferito di Carlo Bino. Lì, dove i raggi del sole battono paralleli sulla terra, è arrivato un giorno un uomo e ne è ripartito un altro. Cambiato per sempre.
Leggere ad alta voce la “Mia Africa” del presidente dell’HCMV significa allora scoprire un’altra storia imprenditoriale varesina d’eccellenza, da ben pochi conosciuta, ma soprattutto una parabola di vita affascinante e un viaggio dentro la propria anima.
Capita spesso, laggiù, che le due cose si uniscano.
A lui, precisamente, è accaduto nel 2014: «Era un periodo difficile per me - inizia a raccontare il numero uno giallonero - Avevo problemi con il lavoro e alcune importanti vicissitudini familiari, sentivo quindi che dovevo modificare qualcosa nella mia esistenza. A maggio di quell’anno un amico senegalese mi chiese di accompagnarlo nel suo Paese, per una settimana. Dissi di sì e partii».
Destinazione Dakar, la capitale: «L’aeroporto è una lingua di terra in mezzo alla città, roba che se sbagli l’atterraggio finisci sulle case. Appena sceso dall’aereo l’impatto fu fortissimo: il caldo pazzesco, soprattutto per uno abbigliato in giacca, camicia e pantaloni lunghi; e poi la confusione, dentro e fuori lo scalo, con persone che ci chiedevano di tutto e volevano venderci di tutto, dalle magliette alle sim dei telefonini; e poi ancora la gente che brulicava per le strade, le urla, il caos. Un disastro, insomma».
Che in pochi giorni diventa attrazione. E poi amore. Difficile sostenere se a entrare dentro sono prima i luoghi o le persone, fatto è che entrambe ti sconquassano le certezze precedentemente acquisite: «L’Africa è tutta bella: ogni angolo in cui ti giri vedi qualcosa di diverso. Ma quello che arriva a colpirti è la sua anima, l’aria che respiri, la diversità, le persone: ti insegnano a vivere bene con niente, ad avere sempre il sorriso sulle labbra, ad apprezzare il fatto stesso di essere vivo, ti educano alla solidarietà».
Dakar si trasforma in una seconda casa per Bino: «Ho iniziato ad andarci ogni due o tre mesi e ogni volta cercavo di pensare a come rendermi utile in un posto così folle. Ho fatto prove, ho incominciato a portare della merce, ma la svolta arrivò un venerdì, che per la gente del luogo è giorno di preghiera. Pregare è una cosa seria, dà a quegli uomini la forza di essere come sono: per questo li vedi tutti molto eleganti, vestiti di grosse tuniche».
Il tessuto di quelle vesti sgargianti è il Damascato Africano: Carlo viene a sapere che la produzione dello stesso è in gran parte di matrice austriaca, ma che nessuno in Italia se ne occupa. Il fiuto imprenditoriale lo muove: «Sono tornato a Varese e ho iniziato a fare dei test con un’azienda di Novara, ma non andarono bene, in quanto si tratta di un prodotto molto complicato da confezionare. Allora ho condiviso il progetto con un’azienda di casa nostra, la Brunello, guidata da Elisabetta Gabri: con loro mi sono trovato subito molto bene, hanno deciso di investire e così è nato il brand che si chiama Bembazin. "Bazin" è il nome delle tuniche di cui parlavo prima, "Bem" invece viene da Bemberg, il tessuto giapponese pregiato che utilizziamo per confezionarle e del quale abbiamo l’esclusiva. Il Bemberg è perfetto per il clima di quelle latitudini: è molto più confortevole rispetto al normale cotone e molto più traspirante».
Il futuro presidente giallonero diventa così responsabile del progetto Africa per la Brunello e grazie a lui il Made in Italy sbarca a Dakar e non solo: «Oggi abbiamo clienti anche in Mali, Costa d’Avorio, Niger, Burkina Faso, Benin e Guinea, oltre a due boutique a Parigi. I clienti africani acquistano metri di questo tessuto e ci fabbricano i vestiti, anche sartoriali».
Insomma, un viaggio per cambiare se stesso è diventato un viaggio imprenditoriale, anche se il Carlo Bino odierno, effettivamente, è un lontano parente del Carlo Bino di prima «L’Africa mi ha fatto capire che il valore nella vita non sono i soldi, ma i rapporti umani, che per me, ora, vengono prima. È stata una rivoluzione, non mi sento più geloso, né invidioso: ho capito che se tu sei felice per il bene degli altri, questo bene ti torna indietro. E da allora cerco di trasmettere tale modo di vivere anche alle persone che mi stanno intorno, l’hockey ne è un esempio: in questo sport ho messo il mio spirito e la mia felicità di vivere il semplice momento. E penso di esserci riuscito, perché la gente che viene al palaghiaccio è contenta, indipendentemente dai risultati. La vita vera non è la nostra, è quella dell’Africa».
Dove oggi Carlo arriva in pantaloncini e infradito (altro che giacca e cravatta…), alloggia in location spartane (e non in alberghi di lusso) e si intrattiene con le persone, prima che con i clienti: «Su tre ore di appuntamento, di lavoro si parla gli ultimi dieci minuti: prima ci sono le domande sulla vita, sulle rispettive famiglie. E ci si vede alle 11 del mattino, non prima: non come da noi, dove alle 6 iniziamo a correre e quando un agente vede un cliente non pensa all’uomo, pensa solo ai soldi».
Carlo, invece, pensa all’esistenza che è tornata a sorridergli. E all’hockey, ovviamente, passione che ha condiviso anche con gli amici che gli hanno cambiato la strada maestra: «Youssouf, il nostro cliente più importante, è stato anche a Varese e l’ho portato al palaghiaccio a vedere i Mastini. Da allora si è appassionato a tal punto che ha visto la finale di Coppa Italia su YouTube, dentro un negozio di Dakar…».
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