È il momento dell’ironia, sfumatura tutt’altro che imprevista - anzi arma pungente, acuta e prediletta - dietro quello sguardo serio: «Sapete come si dice in francese? “Il n'y a pas deux sans trois”, non c’è due senza tre… Dopo Brest e Varese magari troverò un altro club che mi dirà “vinciamo e saliamo” e poi non lo farà…».
È il momento dei puntini sulle i, perché al di là di un self control gelato come un lago canadese d’inverno, si cela un tumulto d’animo impetuoso, fragoroso e perpetuo: «Andarmene è stata una mia decisione ed è stata difficilissima: non era certo il mio obiettivo non restare a Varese. Ma la situazione era chiara a tutti, da tempo: nessuno ora si può sorprendere di quanto è accaduto».
È il momento dell’orgoglio, la punta visibile di un iceberg che spesso nasconde sotto anche sofferenze e incomprensioni: «Abbiamo rimesso Varese sulla mappa dell’hockey… Ora è glamour, ma l’anno scorso non è che ci fosse la fila per venire…».
Ed è il momento delle lacrime. Che sgorgano all’improvviso e bucano lo schermo della chiamata video sull’asse Italia-Canada. Che compaiono quando il discorso scivola sui rapporti umani, sui ricordi di 12 mesi vissuti e già passati come una scossa elettrica che ti cambia per sempre, su cuori che si sono annusati e riconosciuti e piaciuti e uniti pur non avendo apparentemente nulla in comune e non parlando nemmeno la stessa lingua.
Lacrime che cadono a “pulire” tutto ciò che di superfluo esiste in un legame che si spezza (soprattutto contro la propria volontà) e che riducono l’addio ai minimi termini, gli unici importanti: «Mi mancherete, ragazzi. Mi mancheranno i nostri tifosi: sappiano che ho messo tutto il mio cuore nel Varese». Ma la frase si rompe in un singhiozzo…
È il momento di assaporare tutto Claude Devèze prima di mettere il più doloroso dei punti. È il momenti di farlo perché la strada che nell’ultimo anno è stata casa - una casa di vittorie, di umanità, di parole franche, di profezie, di sogni, di miracoli e di “mon ami” pronunciati prima di entrare sul ghiaccio, in un’irrinunciabile scaramanzia che ha dato un verso sicuro al vento del fato - ha cambiato indirizzo.
L’ultima intervista di un capitolo, non di un libro.
«Cosa sto pensando ora? Al grande lavoro che abbiamo fatto. Non voglio che ci sia dell’ipocrisia: nessuno deve essere sorpreso dalla decisione che ho preso. Sono tornato a Varese 12 mesi fa e ho detto che avrei voluto vincere e poi salire. Lo sapevano tutti: una cosa è successa, l’altra no».
L’amor di verità lo costringe a insistere: «Non è assolutamente vero che il mio addio è solo un discorso di soldi, non sono stati solo i soldi il problema: se avessi voluto più soldi, me ne sarei rimasto a Brest lo scorso anno… Non sono venuto a Varese per il denaro: sono venuto per aiutare questa squadra a vincere e a salire di categoria. Tutti lo sapevano».
E allora «rispetto quanto il club ha deciso riguardo al proprio futuro, ma non sono costretto a condividerlo. Avevo un contratto per la prossima stagione e ringrazio per l’offerta che mi è stata fatta per prolungarlo… Ma siamo troppo distanti e i piani sono cambiati. Io sono un allenatore professionista, voglio avere la possibilità di lavorare dodici mesi, di prendere le decisioni sui giocatori. Voglio stabilità e responsabilità».
Ecco una punta di amarezza: «Quando sono partito, il 24 aprile, ero ben conscio che non sarei tornato: se sono davvero “il tuo uomo”, come fai a farmi partire senza essere certo che io ritorni? Come fai a lasciare tutto in sospeso? È in quell’istante che mi sono accorto di non essere più la priorità per questo Varese…».
Sono nuvole in un cielo che però vuol tornare un’ultima volta sereno: «Ieri ero in piscina con mio padre quando è uscito il comunicato dell’addio… A quel punto sul mio telefono hanno iniziato ad arrivare non so quanti messaggi. Ne ho guardati alcuni, ma dopo non ci sono più riuscito, non ce l’ho fatta, mi hanno troppo toccato il cuore. Sono una persona discreta, ma non insensibile: ora ho davvero compreso cosa io abbia lasciato nel cuore dei nostri tifosi, cosa sia riuscito a fare per la loro passione. Scrivetelo per favore: mi hanno toccato tutti il cuore».
E ora, coach? «Adesso penserò un po’ a me stesso. Ho alcune opzioni, le voglio valutare bene. Vengo da due stagioni in cui mi hanno detto “ok, se vinci, saliamo”, e non è successo. Dopo due anni così, chissà se ce ne sarà un terzo uguale: in francese diciamo “il n'y a pas deux sans trois”… Probabilmente certe sfide sono nel mio destino, fanno parte di me».
«Voglio che sia chiaro - dice in conclusione l’uomo del veni, vidi, vici, dei due nuovi stendardi sotto le volte di via Albani, del sapore della vittoria dopo un digiuno di 27 anni - che considero il Varese ben più importante del sottoscritto. Non voglio che questo addio sia vissuto male. Anche perché, sapete che c’è? Sono sicuro che un giorno tornerò».
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