Io mi fido. Noi ci fidiamo.
Io mi fido e noi ci fidiamo perché quando non c'erano ancora i 1.105 spettatori di via Albani e i 300 di Caldaro, voi c'eravate e, se non ci foste stati, oggi non ci sarebbe nulla.
C'eravate senza palaghiaccio, avanti e indietro come mastini un po' birilli e un po' birichini (sì, ricordatevi la spensieratezza, l'incoscienza, la gioia, la follia che avere sempre incarnato e che ha sempre fatto la differenza) da Como a Milano e all'Alto Adige per tenere in vita una fede, più che un lavoro (c'è anche quello, ogni santo giorno, e per qualcuno c'è anche a Pasqua e Pasquetta). Una fede che avrebbe dovuto essere difesa da tutta la città ma, allora, era solo in mano vostra, a un manipolo di tifosi-steward-amici-fratelli e a uno staff che vi accompagna anche ora insieme alle vostre famiglie (senza qualcuno che vi sopportasse e vi supportasse, anche economicamente, non saremmo qui e infatti ora a un padre, a una madre, magari a un nonno e a una nonna si è aggiunto un nipotino, simbolo di quella famiglia che voi per primi avete fatto crescere).
Io mi fido e noi ci fidiamo perché allora c'eravate quasi tutti, compreso coach Devèze, ogni notte in quella pizzeria fuori dal gelido palaghiaccio di Como che vi ospitava, da quel grande matto di Yuri, anche in zona rossa; c'eravate dopo l'ennesima partita senza pubblico, quasi senza mondo, quando SerraTura dormiva in macchina nel parcheggio aspettando l'amico di mille battaglie Andrea Schina (c'era Schina, sempre: tra i giocatori decisivi, lui è quello che non ha mai avuto bisogno di di sentirselo dire per esserlo. L'essenziale, anzi l'essenza del gruppo).
C'era Edo Raimondi al tavolo di Yuri (come c'è sempre stato al tavolo di Paolo e Luisella, fino all'alba, ai tempi del Ciue): a giocare con le nostre paure, le nostre scaramanzie e i nostri tarli della mente, sempre con la parola giusta dopo l'ultima birra che non era mai l'ultima. Con persone come Edo, in pista e fuori, non cala mai il sipario.
C'era Alessio Piroso, come c'era una mattina all'alba - sempre zona rossa, sempre al lavoro, sempre generoso e sempre sul pezzo, innamorato come voi e noi di questa maledetta, benedetta Varese che l'ha accolto - sulla salita del Palace Hotel con tanto di soffiatore per spazzare via le foglie dalla strada: «Parola d'ordine» ci disse scherzando prima di farci passare. La parola d'ordine, oggi, è questa: grazie del tuo coraggio di vivere fino all'ultima foglia e all'ultimo soffio di vento, Piro.
C'era Michael Mazzacane, l'unico giocatore al mondo che compare nei titoli e negli articoli di tutti i giornali tranne che sul nostro per aver soccorso un tifoso del Varese, di cui è medico, crollato a terra attorno al campo d'allenamento dei biancorossi del calcio. E non è comparso su VareseNoi per un semplicissimo motivo: Michael non fece nulla di miracoloso, né punta a tanto. Lui è così sempre, eccezionale nella normalità. Non ha bisogno di un titolo per fare il suo dovere. Lui e tutti i Mazzacane, Erik e famiglia compresi.
C'era Daniele Odoni che ha radunato "tutto", perfino ciò che non si può dire, in una frase all'ultima festa di Natale al De Filippi: «Sono di Como ma ho al collo la sciarpa dei Mastini perché noi siamo gente che non ha mai mollato e mai lo farà».
C'era Riccardo Privitera con il suo cappellino dei Mastini, le sue cicatrici, le sue montagne. Le sue cime da raggiungere quando gli altri si fermano ai piedi della salita.
C'era la famiglia Borghi (Marcello, Pietro, Francesco), basta il nome per non dover aggiungere altro, così come per i Fiori - c'è sempre un seme di nome Marco da cui far sbocciare i fiori - ma anche i Mordenti (Max e Leo, basta uno sguardo per dire tutto e un gesto per fare le differenza). I Borghi non hanno nulla da invidiare alle dinastie altoatesine e venete dell'hockey perché incarnano lo spirito di città-bandiere-colori nei fatti e mai nelle parole. Neppure Marcello ha mai avuto bisogno di dire una sillaba più del necessario perché ciò che ha fatto, sta facendo e farà racchiude il senso del discorso, punto e virgole comprese. Soprattutto il punto, quello che solo lui può stampare nell'ultima pagina di questo libro che si avvicina alla conclusione.
C'era Marco Franchini, la pulce atomica, il mago con quegli occhi da biglia che, quando s'infiammano, diventano cannoni e abbattono tutti i portoni, anche quelli del cuore visto che ogni varesino che l'ha conosciuto lo considera di famiglia e vorrebbe che restasse qui per sempre, c'era "Picci", il Mastino del Brinzio che, come ci disse un giorno, nell'agriturismo di famiglia non ha bisogno neppure della pubblicità sulla strada o di una pagina Facebook o del menu perché contano solo le cose vere e genuine servite al momento.
C'era Andrea Vanetti che, per noi, resterà sempre l'amico che ha realizzato il nostro sogno da bambini cresciutelli ("nostro" perché era anche il suo). Quindici anni fa nessuno ci avrebbe creduto, lui sì e ce lo disse: «Un giorno i Mastini torneranno a vincere. Un giorno riempiremo ancora il palaghiaccio. E io ci sarò». Non saranno il Caldaro, un campionato e neppure il futuro a cancellare una promessa mantenuta.
C'era Claude Devèze: abbiamo conosciuto tanti grandi allenatori e uomini a Varese, da Charlie Recalcati e Attilio Caja a Beppe Sannino e Rolando Maran, da Bryan Lefley (lui solo grazie alla "luce" che emanava in panchina) a Massimo Da Rin, e Claude è uno di loro. Lo ricordiamo in disparte e meditabondo seduto su un tavolino fuori dal solito Yuri, più di due anni fa subito dopo una partita persa a Como: difficile leggergli nel pensiero, ma non negli occhi. Dove brillava quel "lampo", a volte circondato dalla paura che qualcuno possa oscurarlo, radunato in una frase detta nel momento del suo ritorno in città dal Canada la scorsa estate: «La cosa più importante - lo sappiamo tutti, lo vogliamo tutti - è vincere. Io son qui per vincere, i giocatori idem». Tutti lo dicono, pochi o nessuno ci riesce. Lui sì: perché conosce la via. Basta seguirla fino in fondo.
C'è Alex Bertin, terzo guantone e terzo occhio di Perla quando là dietro sembra tutto perduto (così come lo è il preparatore Davide Bertin), c'è Gianluca Tilaro, il giocatore più determinante - non solo per il tiro atomico - meno determinante nella considerazione di avversari e opinione generale, c'è Tommaso Cordiano, super lavoratore dal cuore d'oro, c'è Sebastian Allevato, esempio di carattere e fiducia per tutti, e c'è Daniel Belloni, cresciuto come pochi altri rispetto alla scorsa stagione, ogni partita un passo avanti.
C'è Rocco Perla, last but not last: se nuove generazioni di tifosi si sono innamorate dei Mastini è grazie lui, così giovane, puro, spensierato, olimpico e "leggero" di fronte a compagni e storie così grandi da riuscire a sostenerli tutte sulle sue ali d'angelo vendicatore.
Ci sono Francis Drolet e Mathieu Desautels, così diversi e così uguali nell'essere la goccia senza la quale non può traboccare il vaso. La loro sensibilità, e magari anche la paura di doversene o potersene andare da un ambiente in cui si sentono benvoluti e amati, la loro classe, la loro diversità ma anche la loro capacità di essere una famiglia in una squadra che è già una famiglia rappresentano la virgola che farà la differenza tra vincere o perdere il titolo. Così come la loro migliore qualità: non sono indifferenti, non sono mercenari, non sono davvero stranieri ma fanno parte di noi.
Noi ci fidiamo (nous faisons confiance, we trust you).
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