Si torna alle Final Eight dopo tre anni. Si torna a quelle partite in cui lo stomaco diventa uno stagno pieno di rane ancor prima che inizino, a quei giorni infiniti e a quelle notti magiche in cui pensi solo ed esclusivamente al basket e solo ed esclusivamente alla tua Varese, a quelle emozioni da dentro o fuori, da coin flip esistenziale, quelle che rendono la pallacanestro uno sport assolutamente inimitabile.
E allora grazie Varese: il traguardo è un piccolo sogno e diremmo una bugia ad affermare che fosse atteso. Tale lo è diventato, semmai, nel momento in cui - a suon di vittorie - ci è venuta l’acquolina in bocca, nell'istante in cui abbiamo compreso che questa squadra così particolare, così unica, così contraddittoria, così sbagliata in certe sue mancanze eppure così brava a sfruttare le stesse come rampa di lancio della sua diversità, avesse le carte in regola per dire la propria al cospetto delle contendenti.
Hoppìpolla è un termine islandese semi-intraducibile che - preso pezzo per pezzo - significa “saltare nelle pozzanghere”. Dopo una lunga riflessione, durata quattordici giornate, abbiamo dovuto scomodare una lingua nordica per trovare una definizione davvero calzante alla compagnia cantante di Matt Brase.
È "la Varese che ama saltare nelle pozzanghere", con quella gioia fanciullesca del suo attacco senza schemi, libero come i giochi di un bambino. È la Varese che ama saltare nelle pozzanghere, con quei parziali dati, presi e poi restituiti ancora, fregandosene del buon senso, delle nostre coronarie e dei pantaloni insozzati fino al ginocchio: la mamma, tanto, capirà.
La Varese che ama saltare nelle pozzanghere, rischiando ogni volta di farsi male, di tornare a casa con le ginocchia sbucciate, facendo disperare “noi” genitori, ancorati a un’idea di mondo e di vita che contempla la sicurezza prima di ogni altra aspirazione. Ma andateglielo a dire, a un bambino, che una cosa bella può essere anche pericolosa: ti ascolterà, ma non capirà. Non conosce il male, non lo può contemplare. E non deve nemmeno farlo.
La Varese che ama saltare nelle pozzanghere, quella che abbiamo imparato ad amare alla follia, a custodire come un piccolo orgoglio, a portare davanti al petto con la testa e gli occhi finalmente alti - dopo anni di vergogne - di fronte al giudizio del basket nazionale. Non è stato facile, per nulla. E ancora le faremo le pulci, di sicuro, quando butterà le vittorie nel water facendo finta che non sia peccato, quando non difenderà, quando si farà violentare sotto canestro, quando ci farà credere di avercela fatta e poi smentirà noi e se stessa.
Siamo dei farisei della palla al cesto e chiediamo scusa. Ma ci ricordiamo ancora come sia fatta un’emozione e di che colore sia la felicità: entrambe le stiamo provando stasera, solo e solamente grazie alla Varese che ama saltare nelle pozzanghere.
POST SCRIPTUM
In tutto questo, per vincere a Brindisi, per tagliare il primo obiettivo stagionale, la Openjobmetis odierna ha messo in campo anche quel pizzico di maturità e di diversità necessarie a crescere, ad elevarsi, pur senza snaturarsi. Mai visti così solidi quest’anno i biancorossi: in vantaggio dal primo al quarantesimo minuto, capaci di difendere di sistema - al netto di qualche sbadataggine - con raddoppi e chiusure d’autore, presenti a rimbalzo (i 45 conquistati sono record stagionale), giustamente riflessivi ad abbassare il ritmo e a giocare per una volta con il cronometro quando il traguardo si è palesato all’orizzonte.
Il tutto su un campo difficilissimo, senza Reyes e dopo quattro sconfitte in cinque match.
Una grande risposta, nel momento giusto.
Commenti