Il primo processo celebrato davanti al Tribunale di Cuneo per caporalato. Un’istruttoria processuale corposa, nata da un’attività di indagine da parte della Digos, che lo è stata altrettanto, fatta di intercettazioni, appostamenti e controlli. Le indagini, iniziate nell’estate 2018 dopo una soffiata da parte di un lavoratore, si sono snodate sul territorio del Saluzzese. Subito un arresto, quello di “Momo”, il caporale, cittadino originario del Burkina Faso, da cui ha preso il nome l’inchiesta. Con lui, vennero indagati i titolari di due aziende, una frutticola a Lagnasco e un’altra di pollame a Barge.
Lunedì 11 aprile, la pronuncia della sentenza. Momo T., assistito dall’avvocato Guido Savio, è stato condannato a 5 anni di reclusione. «Una sentenza eccessiva – commenta il legale -. Momo era uno strumento in mano ai titolari delle aziende. Trovo fuori dal mondo che chi abbia agevolato questa attività abbia avuto un trattamento sanzionatorio meno grave. Lui è stato l’unico a farsi 7 mesi di carcere e l’unico ad aver perso tutto. Ha avuto terra bruciata in ogni dove, tant’è che si è trasferito. Sicuramente faremo appello».
Cinque anni anche per M.B. e D.G., madre e figlio, di Lagnasco, rappresentati dagli avvocati Antonello Tripodi ed Enrico Collidà: «Siamo convinti dell’innocenza dei nostri assistiti. Leggeremo le motivazioni della sentenza e certamente presenteremo appello».
Condannati a tre anni invece i proprietari dell’azienda di pollame di Barge, A.D. e M.C., difesi dagli avvocati Chiaffredo Peirone e Chiara Siccardi: «Siamo delusi anche se ai nostri clienti è stato riconosciuto un ruolo minore. Leggeremo le motivazioni e valuteremo il ricorso».
Per la Procura, dietro il caporalato nel Saluzzese si celava un vero e proprio schema e ognuno dei cinque soggetti condannati aveva un ruolo ben preciso. Le persone offese 24 braccianti africani: privi di ogni conoscenza del nostro sistema lavorativo e giunti in Italia con la speranza di poter avere una vita migliore. Addestrati e muniti di bigliettini in caso di controlli sul posto di lavoro, dovevano fingere di non capire e dire che lavoravano lì da pochi mesi, comunicando un orario falso. Due di loro si sono costituiti parti civili, insieme alla Cgil e alla Federazione Lavoratori Agro Industria (Flai) dello stesso sindacato.
I lavoratori venivano reclutati proprio da Momo. ‘Una personalità carismatica’, l’unico che conoscesse la lingua italiana e che riuscisse a carpire la fiducia dei suoi connazionali, che venivano avvicinati alla stazione, fuori dai supermarket o tramite un passa parola.
“Pagare per lavorare”, “sindrome di Stoccolma”, questo l’ingranaggio che faceva scattare il meccanismo del rapporto tra il bracciante e il caporale, il primo ignaro di essere sfruttato da chi, accecandolo, gli aveva offerto un lavoro all'apparenza dignotoso e un barlume di speranza. Dietro Momo, i titolari delle aziende e paghe irrisorie. «La mattina lavoravo nei campi di frutta e la notte raccoglievo i polli – aveva raccontato un bracciante nel corso di un’udienza -. Era un’attività notturna. L’orario non era fisso perché dipendeva da quanto lavoro c’era. Iniziavo più meno all’1 di notte. Per quel lavoro c’erano delle condizioni: i capi pagavano Momo in contanti e lui si teneva la parte che considerava giusta per sé, perché ci aveva trovato l’occupazione, e il resto lo divideva per noi».
Nelle due aziende, erano stati scoperti braccianti agricoli, i cosiddetti stagionali, regolarizzati in modo parziale, sfruttati in modo costante e soprattutto programmato, con contratti brevi e costantemente rinnovati. I lavoratori venivano chiamati a qualunque ora del giorno e della notte. Spesso restavano nei campi a raccogliere frutta anche per 10/12 ore consecutive, anche se formalmente risultava ne lavorassero meno della metà. In 40 in una cascina, la cosiddetta ‘casa di Momo’, per l'utilizzo della quale veniva loro trattenuta una parte della paga, in condizioni igieniche precarie. Se avessero avuto freddo e voluto una stufa, avrebbero dovuto ancora pagare.
Dalla mattina al tardo pomeriggio, la raccolta della frutta a Lagnasco. E poi, la sera, il lavoro nell’azienda di Barge. E il giorno dopo, di nuovo. Da capo. Per non perdere quel poco, che però era tanto, che avevano trovato nei campi per meno di quattro euro l’ora.
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