Davanti ai miracoli dell’universo - una stella cadente, un fiore che buca la neve, un bimbo che nasce sotto le bombe di una guerra e la difesa dell’ultimo quarto della partita di oggi - prima di tutto ti viene da interrogare il divino. Poi la psicologia. Poi ancora il destino o la sorte e i loro multiformi interventi nell’esistenza di ognuno di noi.
La razionalità arriva sempre dopo. Piste dopo.
La partita con Brindisi e l’imprevisto quanto repentino cambio di atteggiamento in retroguardia con cui Varese ha deciso di regalarsi il sapore di un successo dopo 73 giorni, non fanno eccezione. Appartengono al metafisico e non al fisico.
Come spiegare altrimenti un’inversione a U di tale portata nell’arco di un match che fino al 30’ aveva grosso modo rispecchiato tutte le mancanze a cui questa sciagurata squadra ci ha abituato, soprattutto in retroguardia? Sì, proprio tutte: gli errori (i tagli sotto canestro lasciati agli avversari come se fossimo al campetto dopo la quarta birra), l’inadeguatezza fisico-atletica sotto le plance (per almeno due quarti sottolineata a dovere dagli atletoni ospiti: 9 stoppate subite…), la mancanza di un filtro tra gli esterni, l’ormai assodato problema Scola nella zona come nella uomo, i rimbalzi soffiati sotto il naso… Tutte.
E allora è sembrato a chiunque abbia partecipato a questa partita (al palazzetto o da casa) di vedere il solito film e di attendere il solito finale, in un’agonia rassegnata che ormai non avrebbe fatto quasi più male, cosa che accade solo quando il dolore diventa un’abitudine e il fondo è stato toccato da un pezzo.
Invece no.
Invece oggi è andata diversamente. E non ci si può non interrogare con lo sguardo un po’ ebete davanti a una metamorfosi che per 10 minuti ha pervaso i singoli e si è tramandata alla squadra (e poi viceversa, come in un sistema di vasi comunicanti). Una metamorfosi mentale, fatta di un’intensità finora sconosciuta, capace - come accadeva nelle compagini degli anni scorsi - di colmare ogni supposto handicap collettivo e individuale, ogni gap a vantaggio degli avversari, ogni errore fatto in precedenza.
Improvvisamente Varese ha deciso di vendere cara la pelle come mai aveva fatto prima in stagione. Contro la seconda in classifica (pur senza due stelle), non contro una Cantù qualsiasi. Ha deciso di ammantare di possibilità quello che tutti noi avevamo ormai battezzato come impossibile: l’essere una squadra in grado di cambiare - sul campo, non con le parole, non con le scuse, non con le giustificazioni del Covid - la propria fortuna.
Viene quasi rabbia a pensarci: perché solo adesso?
La tecnica e la tattica, come già scritto, arrivano dopo. Ma non si può tralasciarle. La svolta degli ultimi dieci minuti (11 punti subiti in totale, 7 nei primi sette minuti abbondanti del quarto, 14-2 di parziale dal 30’ al 37’) è iniziata con Anthony Morse da “5” e Strautins da “4”, uniti a De Nicolao, Jakovics e Douglas: un quintetto da battaglia nel quale Bulleri ha escluso colui che fino a oggi non pareva escludibile nei momenti decisivi, Luis Scola.
All’argentino va dato il merito di aver continuato l’opera una volta rientrato in campo, o quantomeno di non averla stravolta, così come si è sforzato di fare ognuno dei suoi compagni: oggi, in fase difensiva, l’unica fase che sa portare gli operai in paradiso, tutti hanno risposto presente.
L’insegnamento però dovrebbe essere evidente, in particolare ora che si attiverà il nuovo centro: non bisogna avere paura di prendere delle scelte coraggiose se sono le uniche in grado di cambiare il corso di questa storia di lacrime, sangue e fanalini di coda. In campo ci stia di più - e nei momenti decisivi - chi sa difendere.
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