Per far accadere un evento che non accade da 22 anni, le possibilità devi andartele a cercare: non saranno mai loro a cercare te. Questione di statistica, di cabala, di senso logico.
La Varese che dopo così tanto tempo espugna un campo intestato alla grande e storica nemica Fortitudo, per compiere un’impresa che segna indelebilmente questo inizio di campionato ha cercato se stessa. E si è trovata. Si è trovata come insieme di uomini che hanno un obiettivo comune e un senso - tecnico e spirituale - nello stare vicini. Si è trovata come una squadra. La Effe scudata pensava di avercela fatta a neutralizzare lo spauracchio biancorosso semplicemente oscurando il sole (Scola): non aveva fatto i conti con un cielo pieno di stelle.
Douglas, Strautins, De Vico, in misura minore (ma tangibile) anche Ruzzier e Morse: sono loro, tutti loro, ad aver messo la firma sulla seconda vittoria in due gare, emergendo a poco a poco in una contesa inizialmente segnata dall’immanente presenza offensiva della stella argentina, capo banchetto in una difesa biancoblu quasi imbarazzante per essere vera.
Più nove nel primo quarto, più nove nel secondo: ma no, non poteva durare. La formazione di Sacchetti si è rifiutata di continuare a farsi violentare dall’olimpionico con il numero 4, autore di 10 punti in nemmeno cinque minuti, iniziando a raddoppiarlo con continuità, foga, quasi disperazione, come se fosse l’ultima ciambella di salvataggio disponibile in un oceano in tempesta. Ed è riuscita a mettere un tappo, risorgendo dalle sue ceneri e lasciando Varese a interrogarsi: basta questo a spegnerci?
Penelope e la sua proverbiale tela sono l’immagine che abbiamo avuto stampato in testa per almeno 20 minuti: aggredisci una squadra che vale molto più di te all’inizio della partita, la metti all’angolo, silenzi i reduci dell’Unipol Arena, controlli Aradori e sodali con la stessa noncuranza del torero che doma un toro di cui non ha paura e poi ti perdi? Ti perdi in una battaglia di energia più che di tecnica e di valore (vedi le palle perse e le difficoltà a rimbalzo)? Ti perdi in errori difensivi che paiono più distrazioni evitabili che mancanze dovute alla bravura all’altrui? Fai la cicala quando anche la meno operaia delle formiche basterebbe forse a farti vivere di rendita?
Sì, sì, e ancora sì. Perché nessuno nasce perfetto e questa Varese la malizia la acquisterà solo con il tempo, come normale che sia per un gruppo nuovissimo. Le partite, però, durano quaranta minuti. E, appurato che il leader argentino fosse ormai rimasto irrimediabilmente imprigionato nella tela felsinea, irretito dai raddoppi ma anche dagli arbitri, sono stati gli altri a scattare, ridipingendo il quadro. I colori, quelli più belli, se li sono presi in tre: Douglas, con una serie di mitragliate da fuori una più importante dell’altra, a ricucire passo dopo passo un gap arrivato alla soglia della doppia cifra; Strautins, una potenza fisico-atletica in grado di cambiare il senso di una battaglia a rimbalzo (per lui 12, clamorose, carambole) che prima era stata una cena luculliana per Happ e soci; De Vico, anch’egli glaciale dalla distanza, ossessivo in difesa, leader-bis per atteggiamento, cuore e azione. La sorpresa più bella (e scusateci se troviamo un preferito) di questi primi due mesi di vita per la nuova Openjobmetis.
Dall’inferno al paradiso è un attimo se sai come risorgere. E alla porta dell’empireo oggi Varese ha trovato un regalo che si chiama consapevolezza dei propri mezzi.
Prima Brescia, ora la Effe: chi ha detto “grande inizio”?
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