C’è un filo rosso - anzi biancorosso - che accomuna tutti i ricordi di Pietro Anastasi declinati dalle voci più varie in queste ore di addio: il nostro Pietruzzu era un antidivo, un generoso, una formica tra le cicale. Non gli montarono la testa né la tripletta alla Juve (pronosticata da un tifoso durante il riscaldamento) né l’esordio in nazionale (con gol strepitoso) nella finale europea, né la cifra record pagata (in natura: motorini per i frigoriferi) da Agnelli per averlo a Torino.
Era un centravanti che segnava molto, ma faceva segnare addirittura di più: svariava, creava spazi, crossava, imbeccava. Falso nueve ante litteram, aveva un senso tattico straordinario: fu grazie ai suoi assist che Bettega si rivelò. Divenne l’idolo di tutti i tifosi delle sue squadre, perché uno così non si poteva non amare. Alla Juve fece pure il capitano, orgoglio e icona dei tanti meridionali saliti per lavorare come lui.
Non alzò mai la voce, neanche dove chiunque avrebbe sbroccato: per esempio quando dovette saltare il Mundial messicano per uno stupido scherzo di spogliatoio, che lo dirottò all’ospedale invece che all'Azteca.
Mentre i colleghi scialavano i lauti guadagni, lui viveva sobriamente e metteva via per la futura pensione. Litigò solo con Parola, che al tramonto dell’esperienza bianconera lo mise fuori squadra a costo di perdere uno scudetto già vinto.
Anche da ex scansava i riflettori: parlava volentieri e sapeva sempre cosa dire, però non cercava la ribalta né i patetici (e ben pagati) salamelecchi in cui si crogiolano tanti senza nulla da dire. Subito dopo la foto o l’autografo o l’applauso di turno tornava in disparte, dove stava benissimo. Era cavaliere della Repubblica e allo stadio di Torino c’è una stella col suo faccione cotto dal sole della Sicilia. Antidivo, generoso, formica: più varesino di così.
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