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Sport | 27 maggio 2025, 10:57

La fotoreporter di Brebbia Jessica Malnati racconta la sua vita in giro per il mondo: «La fotografia mi ha guarita dalla depressione, adesso realizzo reportage dall'Africa»

E' una storia tutta da ascoltare quella di questa mamma e professionista brebbiese: «Per anni non sono uscita di casa, quando l'ho fatto ho investito i miei risparmi in una Reflex. Ho iniziato fotografando mio figlio, poi il mio giardino, quindi la Schiranna e poi i ruderi industriali del Varesotto. Ora mi sono concentrata sulle inchieste e sui documentari con cui racconto l'Africa, quella più nascosta e sconosciuta»

La fotoreporter di Brebbia Jessica Malnati racconta la sua vita in giro per il mondo: «La fotografia mi ha guarita dalla depressione, adesso realizzo reportage dall'Africa»

«La passione per la fotografia e per le culture del mondo mi è stata trasmessa da mio nonno, che da bambina mi portava con sé nei suoi viaggi e mi spiegava il valore del fotografare. A casa, mentre i miei genitori guardavano il telegiornale (sono nata nel 1987 e le guerre degli anni '90 mi sembravano le ho vissute con gli occhi di una bambina), guardavo con ammirazione quei reporter tanto coraggiosi e sognavo di diventare reporter di guerra. La vita, però, mi ha portata verso strade diverse: ho studiato navigazione aerea, poi giurisprudenza, che ho interrotto quando è nato mio figlio» inizia così la chiacchierata con Jessica Malnati, fotoreporter di Brebbia. 

Un racconto a cuore aperto di vita e professionale quello ci offre la professionista brebbiese, dove tutto si intreccia: una storia tutta da ascoltare di una mamma, di una donna, di una fotografa, di una professionista, prima di passare a qualche domanda. 

«Ho vissuto un lungo periodo di depressione, da cui sono fortunatamente uscita dopo molti anni, rendendomi conto, però, di aver perso tante opportunità - spiega - è come se mancasse un pezzo di vita. Per tanti anni non sono uscita letteralmente di casa, mi sono rinchiusa in un mondo di libri, idee e arte. Purtroppo, come molte altre mamme, ho vissuto la depressione post-parto, che, a mio parere, inizia ben prima del parte ed è stata la fotografia, lentamente, a salvarmi. Da tempo avevo ripreso a richiudermi tra quattro mura, ho lasciato gli studi definitivamente non riuscendo a vedere la luce alla fine del tunnel: il 10 dicembre del 2014, sono uscita di casa per la prima volta dopo mesi e ho investito i miei risparmi nella mia prima reflex».

Da quel momento di svolta per la vita di Jessica è nata anche un'opportunità per costruire una nuova vita e un nuovo lavoro, lo stesso che sognava da piccola. 

«All’inizio fotografavo solo in casa, mio figlio in primis e tutto ciò che avevo intorno, poi, pian piano, sono passata al giardino in cerca di nuovi soggetti, alla strada davanti a casa, fino ad arrivare alla Schiranna. Lì, con i primi scatti di vita quotidiana, mi sono innamorata delle persone e della fotografia di strada. Insieme ad un caro amico, visitavamo luoghi abbandonati: doveva essere una “palestra fotografica” per imparare a gestire la luce, ma io ero attratta soprattutto da due tipi di luoghi: i cimiteri dimenticati — da cui è nato un piccolo progetto chiamato Memorie Perdute — e le vecchie fabbriche della zona, responsabili di disastri ambientali, che ancora inquinavano torrenti e falde. Senza saperlo, stavo già realizzando le mie prime inchieste.  Mai avrei pensato che pubblicando quegli scatti, da lì a qualche mese, avrei mollato e investito letteralmente tutto per diventare una fotografa professionista e, meno di un anno dopo, grazie alle richieste ricevute attraverso i social, è nata Jessica Malnati Photography, la mia attività come professionista, diventando conosciuta principalmente come ritrattista» sottolinea Jessica. 

Il passo successivo di questo cammino difficile ma molto significativo è quello dei reportage e delle inchieste fotografiche. 

«La parte legata al reportage è cresciuta nel tempo - prosegue - ho iniziato con proteste e manifestazioni, ovunque potessi arrivare, perché volevo vedere con i miei occhi cosa accadeva davvero rispetto a ciò che veniva raccontato. Poi ho cominciato a viaggiare grazie a sponsor privati che credevano nei miei progetti, ONG o autofinanziandomi.  Non so se definirli reportage d’inchiesta o più sociali-documentaristici: ho provato a realizzare alcuni reportage di inchiesta vera a propria, ma mi sono trovata di fronte all'omertà, alla paura della gente a distanza di anni e a minacce poco velate.  Rileggendo la mia storia, mi rendo conto che il reportage è sempre stato presente nella mia vita, in forme diverse». 

«Durante la pandemia ho affrontato un periodo difficile continua Jessica - ma è stato anche un momento di studio profondo e di crescita professionale; ho continuato a raccontare le proteste, altri sono stati progetti fugaci sui sogni dei bambini, le idee erano tante, ma le ho abbandonate in un misto di frustrazione per l'assenza di lavoro e per formarmi in modo mirato dallo storytelling al crowfound, alla costruzione del progetto. Molti dei miei reportage si trovano su una linea di confine tra documentario e inchiesta: ad esempio quello sulla gentrificazione di Lisbona e il ruolo di Airbnb, che per ora resta sul piano del contesto sociale. Il mio obiettivo non è venderli a testate, ma trasformarli in mostre o pubblicazioni attraverso i quali raccogliere fondi da reinvestire. Nei prossimi mesi realizzerò due siti web: uno dedicato ai reportage e uno legato ad un progetto artistico. Oggi, anche grazie alla mia laurea in diritto internazionale (diritto internazionale umanitario), mi occupo sia di Africa subsahariana che di contesti europei. Mi piacerebbe lavorare anche su storie italiane, ma trovare accesso e spazio non è semplice». 

Tra i progetti realizzati da Jessica Malnati figurano reportage sulle discariche di rifiuti in Mozambico e Ghana, letti in chiave sociale e ambientale; storie di orfani e comunità vulnerabili; gentrificazione e baraccopoli, comunità LGBTQ+, sui villaggi africani e le loro vere aspirazioni, raccontate al di là degli stereotipi.

Jessica è appena tornata da una esperienza in terra africana. Ci racconta le sue emozioni e qualche curiosità?

E’ un viaggio nel viaggio. È difficile descrivere ciò che si prova, sono emozioni contrastanti: un misto di gratitudine, frustrazione, rabbia, speranza, gioia e tristezza. Vivere realtà fuori dalle rotte turistiche, inseguendo una storia o lasciandosi guidare, porta a ripensare completamente alla quotidianità a cui si dovrà tornare.  La vita ha un ritmo più umano, più lento e più profondo; c'è il rispetto del riposo proprio e degli altri, la voglia di vivere col sorriso, nonostante tutto. In alcuni paesi, arrivato il tramonto, si inizia a ballare con musica altissima tra le bancarelle delle baraccopoli, poi all’improvviso, cala il silenzio. Il concetto di “tempo” assume un valore di sacralità ed è rispettato e riconosciuto (anche economicamente) dalla società, a differenza di ciò che avviene da noi, abituati al "tutto subito" a discapito della persona umana. La fretta esiste, ma è una fretta senza senso: soprattutto alla guida, sembra che tutti siano in ritardo e debbano correre come matti, arrivare prima degli altri: le strade sono talmente disastrate che comunque, in anticipo o meno, si arriva tutti alla stessa ora a cui si sarebbe giunti senza correre.

Come racconterebbe le persone che vivono in Africa?

Ho incontrato persone che, pur avendo pochissimo, ti accolgono con una dignità ed una generosità incredibili (questo anche nell’Est Europa, diversamente da altre nazioni in cui vieni trattato da turista, con palese ammissione di prezzi supergonfiati). In Mozambico, uno tra i paesi più poveri al mondo, siamo stati invitati a cena, due donne sole, zia e nipote, rarità che non ci sia un uomo tra le mura domestiche. Da fuori, una palazzina grigia, con grate e filo spinato, ma, aperta la porta, sono rimasta stupita pensando a quanto tempo e con quanta dedizione avessero preparato quella serata. Ho fotografato tanti matrimoni ma non ho mai visto una tavola apparecchiata così minuziosamente e con gusto: fiori meravigliosi, piatti raffinati e posate dorate, servendoci piatti tipici degni di un ristorante stellato! L'indomani sarei partita per tornare in Italia: visto il mio gradimento, la mattina seguente, una delle due donne è venuta a cercarmi in aeroporto per lasciarmi le ricette e gli anacardi da lei tostati a mano. Una curiosità dall'ultimo viaggio in Ghana, paese emergente e stabile, ma comunque non ricco, è la produzione delle bare dalle forme più particolari e dai colori sgargianti: c'è chi ha scelto un sarcofago, chi un granchio gigante, chi la macchina da cucire della Singer. 

Cosa l'ha spinta al non facile compito di realizzare reportage in Africa subsahariana?

In realtà è iniziato tutto per caso: sono cresciuta viaggiando, ma quando, con l’adeguata formazione, ho deciso di buttarmi in questa avventura, mi è stato proposto il primo viaggio. Ho scelto di proseguire la mia attività in terra africana dopo aver studiato le loro politiche, gli studi dei ricercatori africani, le loro opinioni e proposte verso la comunità internazionale e ne sono rimasta affascinata. A voler approfondire, posso assicurare che crollano tanti cliché sull’Africa e la sua arretratezza (ovviamente occorrerebbe approfondire i singoli Paesi, parliamo di un territorio estremamente vasto e differente, non possiamo fare di tutta l’erba un fascio). L'Africa Subsahariana è stata una scelta voluta e dovuta: dovuta perché mi ci sono ritrovata da un giorno all’altro, voluta perchè la maggior parte dei miei colleghi sono specializzati nel Medio Oriente o si sono focalizzati esclusivamente sul conflitto ucraino sin dall'inizio (anche io ci sono stata) e volevo concentrarmi su nazioni e culture diverse. Mi occupo anche di tematiche sociali in Europa; vorrei essere più attiva sul territorio italiano, ma trovo che il nostro Paese sia tra i paesi più difficili in cui raccontare storie, sembra che tutto debba apparire perfetto, funzionale e funzionante. Si parla tanto, ma ci si espone poco o per nulla. Se trovassi una porta aperta, sarei ben contenta di dedicarmi alle realtà del mio Paese. Quando mi chiedono "perchè vai a rischiare in quei posti?", spesso rispondo "perchè è giusto". C'è chi mi ha accusata di volermi mettere in mostra (peccato che non pubblico e non vendo i miei reportage!), chi di voler "vincere facile" mostrando povertà, guerra e miseria (vincere cosa?), chi di volermi lavare la coscienza (come e perchè, non l'ho mai capito!).  Il mio desiderio è di raccontare ciò che spesso viene ignorato o travisato dai media, senza cadere negli stereotipi: puntare alle emozioni, raccontare fatti e/o storie con rispetto e consapevolezza, senza scivolare nella pietà. E poi c’è un senso di responsabilità: se hai il privilegio di vedere certe cose con i tuoi occhi, hai anche il dovere di condividerle.

Ci sono nuovi progetti in vista con la realtà africana? 

Ho dei progetti, sia in terra africana che europea, ma per questioni di sicurezza non posso parlarne; posso solo dire che alcuni sono già stati avviati, altri no e saranno, per la maggior parte, progetti a medio-lungo termine, ossia che mi impegneranno per diversi anni. A distanza di due anni, mi piacerebbe tornare in alcune città-discariche e vederne l'evoluzione a seguito delle politiche intraprese dai governi e la reazione della popolazione (ad esempio la discarica di Agblobloshie, quella di Kantamanto o di Hulene); mi piacerebbe poter affrontare la tematica della ricostruzione post-conflitto e della tratta di esseri umani, temi che conosco molto bene. Nello specifico, attualmente mi sto occupando di tutela dei diritti umani nei conflitti armati o post conflitto attraverso l'Ai, ricerca accademica e reportage che richiederà un grosso investimento ma che credo sarà molto utile affrontare viste le dinamiche geopolitiche future; per quanto riguarda l'Africa, vorrei raccontare le rotte migratorie oceaniche, pressoché impercorribili e sconosciute; le politiche di sostenibilità adottate; i diritti delle donne e i progetti per la loro tutela. Altri progetti, invece, riguardano l’Europa: la gentrificazione dei quartieri, la violenza di genere (anche maschile, di cui poco si parla) e la ricostruzione sociale dell'Aquila (quest'ultimo, iniziato lo scorso anno). Infine, sto per terminare un piccolo progetto, che mi tocca da vicino, sull’Alzheimer.

Quali sono le difficoltà maggiori nel realizzare reportage in queste zone così lontane non solo geograficamente?

In realtà, mi adatto molto facilmente anche al peggior contesto, sia perché è nella mia indole, sia perché ho una formazione e una preparazione specifica per contesti emergenziali o di conflitto. Inoltre, dietro ad ogni viaggio, c'è uno studio delle culture e delle tradizioni locali che, a parer mio, è fondamentale rispettare sempre. Una grande difficoltà è l'essere donna: da un lato, quello dei reportage è un ambiente principalmente maschile e ho ricevuto molti “no” in questi anni esclusivamente per l’essere donna: ad oggi, lavoro da sola. Essere donna, bianca, tatuata ed autonoma rende difficile l’accettazione in società dove la donna ha ancora il ruolo di essere esclusivamente moglie, madre, accudire la casa e dipendere dal marito. Ci vuole molta pazienza, empatia e un pizzico di astuzia per instaurare una relazione comunicativa empatica. Spesso le donne africane temono di essere fotografate per poi essere additate in Europa come prostitute; altre temono che si porti via loro il marito, essendo ormai pratica diffusa per le donne europee fare turismo sessuale. Quando comprendono che non c’è alcun pericolo, le loro storie sono veramente importanti. Un’altra grande sfida è gestire le emozioni: pur entrando in una storia in punta di piedi, staccando la mente, ci sono contesti che lasciano un senso di impotenza e non ci si può permettere di mostrare ciò che si sta' provando. Riuscire a mantenere un distacco emotivo e capire quando abbassare la macchina fotografica, anche davanti allo scatto perfetto, trattenere una lacrima, non è così banale o scontato.  Infine, un’altra difficoltà è mantenere l'anonimato: uso uno pseudonimo, nessuno conosce veramente il mio privato e, spesso, si finisce per non sapere più chi si è. Mi piacerebbe poter essere libera di mostrarmi sui social con i miei affetti, con mio figlio, ma quando davanti a te hai un mezzo dell'Isis con i militari e i mitra a vista, ti ricordi che forse è meglio così, essere un'altra persona per un po'.

Quali sono i suoi progetti futuri?

Vorrei prendermi una piccola pausa per poter lavorare alla pubblicazione dei reportage conclusi, creando un sito web su cui condividerli, e dedicarmi a mostre e libri per finanziare nuovi progetti.  Quest'anno terminerò un master sulla gestione delle emergenze e la ricostruzione post-conflitto, sicuramente continuare a studiare, restando in ambito accademico. Lo studio non voglio escluda la fotografia, ma vorrei che i due mondi si integrassero. Come fotografa, in Italia, vorrei concentrarmi sui corsi di fotografia: i miei sono un po’ particolari rispetto a quelli che io stesso sono abituata a seguire! Ovviamente, voglio continuare il lavoro di documentazione, con riferimento ai progetti sopra indicati e, a riguardo, lascerò la porta aperta proprio in Italia. Infine, dal momento che continuerò a muovermi tra Italia e Africa, vorrei aiutare chi, come me, non ha mai avuto occasioni o sta faticando ad averle, rivolgendomi a fotografi locali e artisti emergenti per uno scambio artistico, un percorso che coniughi culture e tradizioni diverse per un'arte "senza confini". E’ un progetto già in fase di avvio in Ghana, ma spero possa espandersi rispetto ad altri Paesi.

Claudio Ferretti

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