È un’eterna lotta tra il bene e il male in questa Varese. Tra le certezze e l’incertezza, tra la speranza di coltivare dei sogni e quella di ripiombare negli incubi.
Si guardi la classifica, pensando a quanto oggi i biancorossi siano andati vicini a lasciarci le penne nello scatolone del PalaRadi: una sconfitta avrebbe significato penultimo posto, in coabitazione con Pesaro e Treviso, a un passetto solo da Brindisi e dal baratro.
Avrebbe significato certificare senza se e senza ma l’esistenza di una croce da portare fino a maggio, in compagnia della paura, della tristezza, dei rimpianti, della rabbia che mette tutti contro tutti.
Ora, invece, siamo qui sudati e tremanti, dopo esserci ubriacati di abbracci alla tripla del serpente campione con i capelli rossi, nutriti dall’estasi dei 300 varesini deliranti di felicità di fronte a noi. E guardiamo la classifica con un sorriso e un “vediamo” che dal cuore arriva al cervello.
Il confine è labilissimo ed è lo stesso che divide il bianco e il nero di questa squadra e del suo allenatore. Potremmo chiudere in una riga questo commento e nessuno ci potrebbe dire "bah": la differenza sono semplicemente Spencer e Mannion. La differenza con la gara di andata, la differenza tra il pianto e il riso, tra la notte e il giorno, tra la retrocessione sparata e un sogno sono la forza e la poesia che i due hanno portato semplicemente in dote.
Ma non è così semplice, non è così scontato. Primo perché per arrivare a loro Varese si è dovuta guardare dentro, ha dovuto litigare con se stessa e le sue convinzioni estive, poi provare la paura, infine aprire il portafoglio oltre le proprie possibilità: ha dovuto affogare, quindi scommettere.
E secondo perché dopo le quattro vittorie tra Pesaro e Treviso, hanno fatto capolino due sconfitte tanto scontate quanto fastidiose, a ricordare puntualmente che i limiti esistono e continueranno a esistere.
Sì ma qual è il vero limite? Dove va messa l'asticella?
Oggi Varese ha giocato l’all in contro Cremona, nel tentativo di trovare una risposta. E l’ha conosciuta solo al termine di una gara pazza, infinita, piena di fatica, mai decisa.
Ci aveste chiesto un parere tra il secondo e il terzo quarto, con la Openjobmetis sempre davanti, i rimbalzi dominati e il “sistema” che mostrava la propria efficacia su una Vanoli costretta a inseguire, vi avremmo detto delle parole che, venti minuti dopo, saremmo stati pronti a smentire.
È bastato Eboua a ribaltare il tutto: è bastato il solito lungo indigesto, nello specifico non tanto nel far male sotto canestro, quanto nel portare fuori Spencer e lasciare il campo ai missmatch fisici degli esterni. Da lì un altro game: le triple di casa a punire gli adeguamenti, le carambole lasciate nelle mani avversarie, il pallino che cambia proprietario.
E allora non solo Venezia e Virtus, ma anche qualcuno di molto più borghese sarebbe stato pronto a dimostrare di saper trovare le falle nello scudo varesino e di saperle attaccare. Mandandolo in mille pezzi.
Ripassate un’altra volta, prego.
Mannion, Spencer, e la nuova Varese rinata con loro, bastano per Cremona. Ora sotto a chi tocca.
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