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Sport | 27 giugno 2023, 16:48

Una bandiera non si ammaina, se prima non la si è accarezzata con rispetto e onore

Oggi come oggi Giancarlo Ferrero è più lontano che vicino alla sua Pallacanestro Varese. Di “clamoroso" non c’è l’uscita dal suo contratto da parte della società, ma l’idea di perderlo così, nell’inerzia del silenzio, senza un ultimo giro di giostra. Lo merita l’uomo, prima del giocatore. Lo merita Varese, lo meritiamo tutti

Una bandiera non si ammaina, se prima non la si è accarezzata con rispetto e onore

Partiamo da qui: non c’è nulla di “clamoroso” nella decisione di Pallacanestro Varese di uscire dal contratto di Giancarlo Ferrero, presa e comunicata all’interessato venerdì 16 giugno 2023.

Clamorosa, piuttosto, sarebbe la scelta di salutare senza colpo ferire, “en passant”, senza “nemmeno provarci”, chi per otto anni ha dato la vita per i colori biancorossi, da giocatore e da uomo. 

Clamoroso, e inconcepibile, sarebbe ancora di più non aprire una discussione, un dibattito di idee, di cuore e di cervello sull’argomento: sarebbe starsene in silenzio, insomma. Perché significherebbe che il passato non conta nulla. E invece conta eccome, anche quando si è proiettati con convinzione, ardore e speranze verso un futuro che tutti sogniamo ambizioso, migliore.

La mossa di Pallacanestro Varese e del suo amministratore delegato Luis Scola era prevista: a governarla ragioni economiche relative al valore dato al  “+1”, apposto alla voce durata, nel contratto firmato tra le parti nell’estate 2021, ovvero una “società fa”. Se lo aspettava in fondo anche lo stesso Capitano, persona intelligente, non certo cieca verso il mondo che lo circonda e quindi verso le esigenze societarie, siano esse tecniche o finanziarie.

È piuttosto il silenzio da lì in poi a essere diventato assordante, a suonare straniero, a fare paura, a non essere comprensibile, a farci pensare (e non solo a noi) che - a oggi - l’assenza di comunicazioni possa essere una lunga inerzia verso l’addio. 

E allora riempiamolo questo silenzio. Partendo dal concetto più antitetico rispetto alla posizione di chi, il mancino di Bra, se lo metterebbe sul comodino, vita natural durante. E cioè che è sacrosanto per Varese ragionare bene sul conto di un giocatore di quasi 35 anni che nell’ultima stagione si è via via allontanato dai piani di chi l’ha allenato. E che non sarebbe nemmeno una bestemmia se la stessa decidesse che quel 35enne non è definitivamente più utile alla causa del campo, dando luogo a un ricambio generazionale e a una nuova scommessa.

Assodato questo, chi scrive - e con lui diversi tifosi - ha peraltro ancora in mente la faccia spaesata di Matt Brase nel secondo periodo del quarto di finale di Coppa Italia contro Pesaro, mentre Charalampopoulos disponeva della difesa della Openjobmetis come il padrone fa di un servo, il povero Justin Reyes claudicava per il campo e nemmeno il brillante Jaron Johnson pareva capirci qualcosa degli accidenti del parquet. In tale frangente il coach americano ebbe un salvifico momento di lucidità: si girò verso la panchina e si “ricordò” di Ferrero, il quale - quasi da solo, in attacco come in difesa - rimise in piedi il match, regalandoci almeno il sogno, svanito al quarantesimo, di una storica (vista la rarità) qualificazione alle semifinali. 

Ecco: non esattamente il prototipo dell’inservibile…

E gli esempi potrebbero anche essere altri: Scafati, per dirne uno. Certo, ammettiamolo: il “Gianca” non ha rubato gli occhi tante volte l’anno passato, o almeno non l’ha fatto quanto nei precedenti… Ma bisognerebbe anche capire che non è semplice incidere quando a disposizione non si hanno che cinque minuti, quando per nove partite di fila non ti fanno quasi alzare dalla panchina e quando la fiducia viene ma soprattutto va. 

Il punto del discorso è che sull’aspetto tecnico del “problema” la si può pensare come si vuole (così come sulla proiezione futura dello stesso: se si parteciperà alla Champions League, come e dove trovare sette italiani? Ma pure cinque…) e non si sbaglia comunque: lo si farebbe, invece ed eccome, se ci si scordasse del resto.

Giancarlo Ferrero ha trascorso otto stagioni sotto al Sacro Monte, pronto alla nona. Come o meglio di lui (e andiamo a memoria) solo i due Meneghin, Marino Zanatta, Bob Morse, Aldo Ossola, Massimo Ferraiuolo, Dodo Rusconi e Gianmarco Pozzecco. Cioè il basamento della leggenda prealpina, il Valhalla del basket di casa, il Pantheon delle nostre divinità sportive. Lo stesso Pantheon di cui Giancarlo fa ormai parte, categoria resistenti: facile essere bandiera quando tutto va bene, meno nel pieno Medioevo di questa storia minima, tra retrocessioni sfiorate un anno sì e l’altro pure, crisi economiche e disgrazie assortite. Da gestire, peraltro, alcune, in prima persona. 

Sono stati otto anni di sudore e sacrifici, guidati dalle massime della parabola dei talenti: Madre Natura gliene ha dati 10, lui ne ha restituiti 1000. E li ha restituiti soprattutto a Varese.

Sono stati otto anni di impeccabile condotta: mai una parola fuori posto, mai un passo indietro in battaglia o davanti alle responsabilità, fossero esse una tripla da scagliare dall’angolo, una parola detta a un compagno, o un asciugamano da sventolare. Sono stati otto anni con un passpartout stampato sul volto: il sorriso.

Lo stesso che ha sposato Varese e i varesini, conquistato una città intera e migliaia di tifosi, insieme ai modi gentili, alla disponibilità e all’amore verso il prossimo, dimostrato nei confronti di chiunque, il primo dei presidenti come l’ultimo dei tifosi. 

Sono i suoi tratti umani a essere stati e a essere una gemma rara, unica, nell’epopea sportiva di questa città. 

È il Giancarlo uomo la storia da conoscere e che non può finire così: una fiaba che nessuno, nemmeno chi si è impegnato a essere depositario della stessa e di quella ancora più grande che la racchiude, può far finta che non sia esistita e che non abbia un peso.

Una bandiera non si ammaina, se prima non la si è accarezzata con rispetto e onore: per questo Giancarlo Ferrero merita un ultimo anno con la canotta biancorossa a gonfiargli il petto come a nessuno, merita un saluto e un abbraccio lungo nove mesi da parte della sua gente, merita un addio pieno di lacrime ma anche di affetto. 

Giancarlo merita un’altra tripla, un altro boato dopo che il “Pisa” avrà scandito il suo nome, un altro sguardo verso i suoi spalti, un altro cenno di intesa con Alessia, un altro consiglio dato a un giovane o a un americano spaesato.

Merita noi. E noi meritiamo lui. 

La nuova Varese vuole essere “diversa”? Bene, inizi dai sentimenti, dalla gratitudine, da ciò per cui vale la pena vivere e fare sport.

Lasciarlo andare così, rimettendo tutto (come pare essere a oggi) a freddi calcoli tecnici e alle valutazioni di un allenatore, cioè alle valutazioni di chi della favola che abbiamo raccontato non sa nulla o sa molto poco, senza una proposta che non sia quella di svestire i panni dell’atleta per diventare qualcos’altro (ci sarà il tempo anche per quello, ma quel tempo non è ora), sarebbe un calcio ingrato non solo a Ferrero, ma a tutti quelli che davvero amano Varese e per essa soffrono ogni domenica. 

Sarebbe un autogol. Sarebbe il modo peggiore per iniziare la nuova era.

Fategliela, questa benedetta proposta: vi troverete davanti a un uomo e a un giocatore che non chiederà minuti, né (tanti) soldi, né altro. Chiederà solo un ultimo giro di giostra: la sua, la nostra.

Fabio Gandini

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