Il carcere di Torino è peggio dell’Ucciardone di Palermo. Nel 2022 al Lorusso e Cutugno si sono tolti la vita quattro persone, il che colloca la struttura delle Vallette al secondo posto in Italia per numero di suicidi, a pari merito con San Vittore e subito dietro Foggia. Nell’anno che si è appena chiuso, a livello nazionale, hanno deciso di farla finita 85 detenuti, ottanta uomini e cinque donne. Il dato emerge dallo studio presentato questa mattina in Regione Piemonte, elaborato dal Garante Nazionale delle persone private della libertà personale. Un fenomeno definito preoccupante, considerando che nel 2023 in Italia ci sono già stati sei suicidi. In tutto il Piemonte nel 2022 sono sei i carcerati che si sono tolti la vita: ai 4 di Torino se ne aggiunge uno a Saluzzo.
Si suicida pochi giorni dopo l'ingresso in carcere
“Il Lorusso e Cutugno – ha commentato Bruno Mellano, Garante dei detenuti per la Regione Piemonte – è uno degli istituti più complessi d’Italia: all’interno ci sono 27 circuiti diversi. L’obiettivo è fare scendere questa complessità, spostando alcuni circuiti”. Per Mellano i 5 morti del Piemonte costituiscono sicuramente un “grido d’allarme. Io dico che la Regione deve tradurre in maniera operativa i protocolli d’intesa sottoscritto: tra le priorità occorre fare entrare gli psicologi in carcere, sia per i carcerati che per gli operatori”. Tra le persone che si sono tolte la vita a Torino il caso più eclatante è rappresentato da un ragazzo di origine africana, che si è impiccato lo scorso 28 ottobre nella cella del padiglione B, pochi giorni dopo essere entrato in cella con l’accusa di furto.
"Ad un detenuto servono prospettive"
Sono moltissimi i casi di suicidi che si verificano appena entrati negli istituti penitenziari, oppure al momento dell’uscita, per il timore del reingresso in società. “Questo giovane – sottolinea Emilia Rossi, componente del Collegio nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale – aveva tutte le caratteristiche del dramma che investe le persone quando entrano in carcere, che si sentono finite in un buco da dove pare impossibile uscire”. “Noi dobbiamo operare – ha aggiunto -proprio su questa situazione di fragilità: c’è una richiesta di sostegno da parte dello Stato e da parte della società esterna. Qua sono chiamati in causa non solo gli enti pubblici, ma siamo tutti responsabili”. “Ad un detenuto serve avere fuori – prosegue Rossi - prospettive diverse da quelle che lo hanno portato in carcere, ad esempio avere un’abitazione per accedere ad una misura alternativa al carcere in caso di domiciliari. Oppure opportunità di lavoro e poi una riduzione dello stigma sociale: sono il linguaggio e cultura che devono cambiare”.
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