Le sue mani hanno fatto vincere i campionissimi del ciclismo e dello sci, ma anche "scritto" alcune delle pagine più belle del Varese, ma le sue parole a volte sono riuscite in un'impresa ancora più grande: rendere semplici e delicate anche imprese eccezionali, trasformando in persone normali, e per questo speciali, anche chi era numero 1 nel suo loro lavoro.
Veglio Astori se ne è andato improvvisamente a 84 anni dopo una breve ma inarrestabile lotta iniziata alla fine dello scorso anno contro un brutto male: lascia il figlio Roberto, che del padre ha la stessa umanità, raggiungendo la sua Alma, dolce anche nel nome, proprio come Veglio. Domani, mercoledì 26 gennaio, alle ore 14.45 si terrà il rosario presso la Sala del Commiato di via Mulini Grassi 10, prima dell'ultimo viaggio di Veglio verso il cimitero di Ganna.
Le mani di Veglio si sono prese cura di alcuni grandi del ciclismo, suo primo grande amore, come Merckx ad Adorni: correre in pianura, ma spesso in salita, sia al Giro che al Tour era il suo "pane", stesse parole massaggianti, confortanti, carezzevoli e autorevoli per tutti.
Le mani di Veglio sono arrivate ovunque, con professionalità e passione, anche allo sci e ai campioni della valanga azzurra, con le medaglie olimpiche di Thoeni e Gros a Innsbruck '76, ma si sono fermate per sempre nel cuore del suo Varese, dal '76 al '96 ma anche più tardi, chiamato da società e dirigenti successivi perché senza di lui era come se al rosso della bandiera mancasse il bianco, candido come la sua cadenza che, però, arrivava sempre al punto giusto di un muscolo e, soprattutto, dell'anima.
Non esiste persona che non abbia ammirato Veglio, che una volta disse in una memorabile intervista a "Il Biancorosso", a proposito di quel suo nome che sembrava scritto in una favola: «Mio padre voleva chiamarmi Velio ma all'anagrafe aggiunsero una“g”. Lavoravo in un'officina meccanica a Milano, prendevo i permessi per studiare le tecniche di massaggio: costava 120mila lire, fui il migliore del corso».
A fine estate '76 fu portato al Varese dal dottor Modesti e in un amen trovò l'accordo con Peo Maroso e Ricky Sogliano, presidente Guido Borghi. La famiglia Sogliano era ed è più di una famiglia per Veglio e Roberto: «Duro, ma di cuore: capiva di calcio, usava metodi tradizionali, detestava i divismi. Erano tempi belli, in cui anche i gol si festeggiavano sobriamente» disse una volta di Ricky Sogliano.
E del Peo: «Battagliero, capace di parlare la lingua dei giocatori. Chiedeva corsa e aggressività».
Da lì partì la corsa più lunga della sua vita, quella nel mondo biancorosso, passata dalle furie di Fascetti («Davamo spettacolo, eravamo dieci anni avanti. Nessun altro giocava così: fuorigioco, fantasia, corsa. Allo stadio la gente faceva“ooohh!”»), la retrocessione, la rinascita con Claudio Milanese e Luigi Orrigoni («Il mio presidente preferito: con una stretta di mano sistemava tutto. Generoso e spontaneo. Aveva lo stile di Borghi»), l'amicizia con Soldo e Nikolic e con tutti coloro che hanno avuto a cuore gli altri, prima che se stessi, nella vita prima che nel lavoro.
«Ogni domenica per me è un'emozione: al Varese ho vissuto vent'anni di goduria» furono le sue ultime parole di quella vecchia intervista a "Il Biancorosso".
Caro Veglio, la goduria è stata nostra e di tutti quelli che hanno passato almeno un giorno della loro vita con te. È stato un onore.
Commenti