Un derby dalla trama già scritta, come quei film in cui è scontato che il protagonista e la sua bella alla fine si baceranno, che il cattivo (o i cattivi) finirà con le pive nel sacco in una pozzanghera esistenziale e il gigione di turno spiccherà dalle sue labbra una battuta che non farà ridere quasi nessuno.
Ciò non significa che il giudizio sulla Varese che stanotte farà incubi a forma di triple da nove metri e giganti in mezzo all’area debba essere necessariamente tremendo. Varese ha fatto la Varese contro una Milano che ha fatto la Milano: cosa c’è di sbagliato?
Nella squadra in generale poco o nulla. Anzi: anche nella mazzata subita si è intravista una crescita complessiva in difesa e un attacco quantomeno non timido nel quale la rinnovata presenza di Toney Douglas si sta facendo sentire. E quest’ultima osservazione sopravvive al netto della pioggia di triple tirate e finite sul ferro (9/35 il finale biancorosso da 3), ma nell’area griffata Armani ci vanno in pochi e di certo, tra i prodi di Bulleri, ci può andare solo Scola.
Finché De Vico e soci sono riusciti a tenere “dietro”, una parvenza di partita c’è stata: per 15 minuti Varese è stata capace di far pensare i fenomeni di Messina, grazie a cambi di marcatura non perdenti, all'attenzione e una spruzzata di una zona che è capace di fare sempre il suo. Poi, quasi all’improvviso, Milano ha trovato un moltiplicatore di punteggio nelle prodezze individuali e nelle triple da 7,8, 9 metri: prima Shields, poi Punter, poi anche Micov. Canestri bastardi, indifendibili, inesorabili, continui (8/10 da tre al 20’), cartina tornasole di una coperta biancorossa che credeva di non essere corta ma che non poteva non esserlo. È stato un attimo: dal -7 ci si è ritrovati sotto di 23 in soli 4 minuti di gioco.
Da queste parti ce lo siamo abbondantemente dimenticato, ma i campioni sono così: ti prendono in mano e ti fanno volare. Se non li hai, rimani a terra ad annusare l’odore della polvere e della realtà.
Ma, ci ripetiamo, la valutazione sulla squadra Varese non può essere sprezzante stasera: rispetto a un mese fa questa squadra è diversa, è più quadrata, è meno peccatrice. Sta assorbendo il lavoro fatto e la freschezza datagli dal nuovo allenatore non è più indigeribile. Diverso è il discorso che riguarda i singoli: alcuni di essi non si toglieranno mai di dosso la loro inadeguata dimensione attuale, altri stanno incontrando tante difficoltà a farlo.
Questo fa e farà sempre tutta la differenza del mondo. Andersson è parso ancora una volta di un’altra categoria rispetto non solo ai fuoriclasse milanesi, ma anche rispetto ai suoi compagni. Ruzzier, dopo qualche match convincente, è incappato in un’altra scena semi muta, timida, svogliata, leggera: a quando la costanza? Morse, infine, ci ha più che provato come sempre, ma ha una patina di grezzo a ricoprirne le movenze che a seconda delle partite cambia di spessore, modificando proporzionalmente anche la speranza di ricavarne qualcosa in un futuro prossimo o lontano.
La morsa in cui si è stretti è pratica, psicologica, infida: si dovrebbe cambiare qualcosa, ma non è possibile (e giudizioso) farlo. E quando si è provato a farlo è arrivata la sfiga ad agitare il ditone come il miglior Mutombo che si ricordi.
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