La ricca narrativa latinoamericana impregnata del grido di dolore delle madri in cerca dei figli desaparecidos ha un capitolo in più da sfogliare. Questa volta non siamo in Argentina o in Cile, sotto dittatura, a metà degli anni Settanta, ma nel nostro attuale presente, in Messico, terra di confine per eccellenza tra i due volti del grande continente americano. Sin señas particulares, di Fernanda Valadez, ha inaugurato ieri la trentottesima edizione del Torino Film Festival, online, accendendo fin da subito un faro sulla grande questione femminile (sociale, politica, ideologica) al centro del palinsesto diretto da Stefano Francia di Celle con la vice Fedra Fateh.
Il film, in concorso nella sezione Torino 38, narra la storia di Magdalena (un'intensa e drammatica Mercedes Hernández), commerciante di Guanajuato, che non ha più notizie del figlio da quando, mesi prima, ha lasciato il Messico per andare negli Stati Uniti. Dopo aver interpellato le forze dell'ordine denunciandone la scomparsa, le autorità spingono perché la donna firmi un certificato di morte, facendo così cessare le indagini. Ma l'incontro con una madre in lutto, specchio delle sue stesse sofferenze, spinge Magdalena a intraprendere un lungo viaggio per capire quale sia stato realmente il destino del figlio.
Terre selvagge e lande desolate si alternano a duri spaccati di un'umanità che non ha più nulla da perdere, e baratta pochi beni essenziali con un posto assicurato su un mezzo di trasporto. Coraggiosa, sospinta da quella forza indomabile che solo le madri con un sesto senso interiore possiedono, Magdalena si immerge fino al collo nella devastazione di un Paese in cui ormai si sente straniera. Finché il suo destino non si incrocia con quello di Miguel (David Illescas), un ragazzo costretto a rimpatriare dagli Stati Uniti, ed è l'incontro tra due solitudini che si prendono per mano in cerca di un calore familiare venuto meno. La rivelazione finale è come un'ombra che fuoriesce dalle fiamme: il figlio di Magdalena, trasfigurato, è stato preso in un giro criminale e non può più uscirne. E' vivo, ma ormai appartiene a un altro mondo, dove vigono altre implacabili leggi, e il tormento di una madre può solo trovare consolazione nell'accettazione del lutto.
"Vengo dallo stato del Guanajuato, dove ci sono molti migranti che cercano di andare negli Stati Uniti - spiega la regista Valadez raccontando il suo esordio, secco e diretto, capace di dare voce, attraverso una vicenda privata, al dramma dell'intera nazione. Il motivo ispiratore viene dalla carneficina di Ayotzinapa, nel 2014. - Quando ho letto un articolo sui tredici ragazzi rapiti da un autobus, ho pensato a quale potesse essere stato il loro destino, e quello di centinaia di altre persone in Messico. Così ho iniziato a scrivere. Da tempo siamo in guerra contro i cartelli, ed è una guerra che coinvolge qualsiasi tipo di guadagno illecito: tratta di persone, sfruttamento sessuale, commercio di droga. Questi traffici usano le stesse rotte dei migranti".
Nata nel 1981, Fernanda Valadez è diplomata presso il Centro de Capacitación Cinematográfica di Città del Messico. Il suo primo lavoro De este mundo (2010) ha vinto il premio come miglior cortometraggio al Guanajuato Film Festival; mentre il corto di diploma 400 maletas (2014) è stato selezionato per il programma Editing Studio Berlinale Talents e ha ricevuto numerosi premi in tutto il mondo. Ha fondato due case di produzione, la Enaguas Cine e la Corpulenta, con cui ha prodotto numerosi film. Sin Señas Particulares (2020), suo primo lungometraggio, è stato presentato al Sundance Film Festival, dove ha vinto il premio del pubblico e il premio speciale della giuria per la miglior sceneggiatura.
“Il film è nato dieci anni fa - racconta ancora la regista -, quando iniziò a registrarsi un incremento di violenza in tutto il Messico. Vivevamo un’autentica crisi umanitaria, con la scomparsa di numerosissime persone, specialmente migranti, e cominciavano ad apparire le prime sepolture clandestine. Abbiamo cercato di raccontare una storia semplice, che trattasse un fenomeno triste ma partendo da un concetto positivo, luminoso, l’amore di quei familiari che vogliono a tutti i costi che giustizia sia fatta. È stato un percorso lungo, di ricerca e documentazione. La sceneggiatrice Astrid Rondero e io eravamo troppo timide per intervistare direttamente le vittime dei familiari, così abbiamo fatto ricorso alle inchieste dei giornalisti investigativi pubblicate sull’argomento. E ci siamo anche interrogate su altri generi di massacro nel mondo, come il genocidio in Ruanda, cercando di capire il fenomeno della violenza e la relazione tra vittima e carnefice. Il risultato è una storia semplice, piccola, ma riflette la tragedia di un popolo intero”.
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