Il Nazionale

Cronaca | 10 aprile 2020, 15:14

Il racconto di Marco: “Così sono guarito dal virus dopo otto giorni in rianimazione”

Lucente, il tabaccaio di via Pacoret a Multedo, è tornato a casa: “Il momento più drammatico? Quando mi hanno detto che sarei andato in terapia intensiva"

Il racconto di Marco: “Così sono guarito dal virus dopo otto giorni in rianimazione”

L’altra sera a Multedo, nell’ormai consueto dj set serale di Jacopo Saliani, è partita la bellissima ‘L’amico è’. Poi, al termine della canzone, c’è stato un applauso intenso, scrosciante, indimenticabile. Perché Marco, uno dei ‘figli’ più amati e benvoluti del quartiere, era da poche ore tornato a casa. Dopo aver sconfitto il coronavirus, dopo aver trascorso otto giorni in terapia intensiva e sedato con i farmaci. Marco, un ragazzo come tanti, un ragazzo come noi, è tornato alla vita vissuta e, a poco a poco, potrà tornare pure alla vita quotidiana, dopo una drammatica vicenda che si ricorderà per sempre.

Era mercoledì scorso, al mattino, quando ha iniziato a spargersi la notizia che il tabacchino di Multedo, che gestisce il negozio, molto frequentato, in via Pacoret de Saint Bon, ce l’aveva fatta, era stato dimesso e ricondotto presso le mura domestiche. Messaggi sulle chat di whatsapp, sui social network e ovunque: un po’ perché a Multedo le notizie corrono più veloci che nelle agenzie di stampa (ed è, in fondo, il bello di questo posto), un po’ perché tutti non vedevano l’ora di darla, questa notizia qui. Storia a lieto fine, ma quanta sofferenza in mezzo, quanto dolore, quante lacrime e quanta paura: di Marco in prima persona, della moglie Rossella, del loro figlio Lorenzo di nove anni, di tutti i parenti e un po’ di tutte le persone che conoscono questo commerciante e lo apprezzano per la sua gentilezza e la sua costante disponibilità e presenza.

Oggi Marco Lucente, questo il suo nome completo (anche se a Multedo nessuno si chiama per cognome, ormai da secoli), racconta la sua storia. Ha tirato un sospiro (finalmente lungo e completo) di sollievo: “Sì, sono guarito. Ce l’ho fatta. Sono ancora molto debole e con un po’ di affanno, ma ne sono venuto fuori. Ora dovrò restare ventuno giorni in isolamento e poi sarò ufficialmente guarito, anche se spero che mi vengano fatti prima i due tamponi di controllo, per confermare la mia negatività”. Marco è, naturalmente, a casa da solo: “Mia moglie e mio figlio si sono trasferiti da mio cognato. Stanno bene, non hanno sintomi, anche perché, appena ho avuto il segnale che qualcosa dentro di me non stava andando, mi sono subito messo in isolamento”. Il ragazzo è stato un malato ‘diligente’: “Se n’è talmente parlato che non potevo che comportarmi così. Ai primi sintomi, ho voluto rimanere da solo”.

Tutto inizia ai primi di marzo: “Un pomeriggio - racconta Lucente - mi sento molto stanco e con qualche linea di febbre. Così chiudo prima il negozio, cosa che non avviene mai, e vado a casa. Mi misuro la temperatura e il termometro indica 37,5. Poi, passano quattro giorni, la febbre sale e comincio a tossire e a respirare molto male. È a quel punto che chiamo il numero speciale 1.500. Mi viene riferito di contattare il medico di base. Ed è attraverso il mio dottore che arrivano i soccorsi a casa e vengo portato in ospedale, perché ormai la saturazione era bassissima e il virus era scoppiato dentro di me”. Marco viene condotto all’ospedale San Martino: “All’inizio mi collocano presso il Pronto soccorso, naturalmente in un reparto speciale per i positivi al covid-19. Tutte le misure di sicurezza sono sempre state rispettate. Ricevo qui le prime cure, ma non rispondo molto bene. Continuo a respirare male. Così mi viene data la notizia che più mi ha sconvolto, in questa vicenda: ‘Lei deve andare in terapia intensiva. La dovremo sedare e dovrà proseguire così le cure’. È qui che mi è crollato il mondo addosso. Sai che ti addormentano, non sai se ti risveglierai mai più. Sento Rossella per l’ultima volta, e le dico che cosa mi aspetta”.

Intanto, moglie e figlio non vedevano Marco già da parecchi giorni, e a questo punto non avrebbero neanche più potuto sentirlo. È come passare dall’altra parte, in un altro mondo, dentro un’altra dimensione. Il mondo ovattato e irreale di una terapia intensiva: “Ci entro il 23 marzo, nel reparto apposito di San Martino, e ci rimango sino al 30 marzo. Vengo intubato e, alla fine, mi è stato spiegato che è la cura ovviamente più invasiva, ma anche la più efficace contro il virus. Il Covid tende a impedire la trasmissione di ossigeno nel sangue, grazie alla ventilazione artificiale si mantiene un livello di saturazione che consente la vita”. Il valore ottimale è 100, quello buono è 99. Se si scende sotto a 95, scatta già un primo allarme. Marco Lucente è arrivato molto, molto più in basso: tanto per rendere l’idea della gravità della situazione. “È come se io fossi stato spento. Ma intanto Rossella era rimasta accesa. Posso solo lontanamente immaginare che cosa abbia passato la mia famiglia, mentre io dormivo. Io li voglio solo ringraziare, ringraziarli per il coraggio e la forza d’animo che hanno avuto. Ringraziare tutti quanti. L’ospedale è rimasto costantemente in contatto con i miei cari, sono stati aggiornati passo dopo passo. Ma è chiaro che non potevano sentire la mia voce”.

Sino al 30 marzo: “A un certo punto, sento una dottoressa che mi dice delle parole in modo molto dolce. Non ricordo assolutamente quali. Ricordo solo il suo tono della voce, molto delicato. È il momento in cui vengo risvegliato. Ma sono completamente ancora incapace di intendere. Cerco di grattarmi il naso e la mano mi finisce nell’orecchio. Non so perché ma sono convinto di essere a Roma. Mi dicono: ‘No, guarda che sei a Genova’. E io: ‘A beh, allora meno male’. Passo ancora due giorni dentro a un casco a ossigeno, un’altra esperienza molto segnante. Ma almeno, a poco a poco, riprendo coscienza. Sino a che non arriva il momento delle dimissioni. Posso tornare a casa. Naturalmente con tutte le precauzioni del caso”. Marco vuole ringraziare, infinitamente, tutto il personale sanitario: “Sono stati straordinari, eccezionali. Si vede che per loro non è solo un lavoro, ma una vera e propria sfida. Ho visto persone lavorare dodici ore di fila senza mai perdere la voglia, senza battere un ciglio. E poi ho visto la professionalità dei medici, degli infermieri. In terapia intensiva ogni paziente ha un suo infermiere, viene guardato ventiquattr’ore su ventiquattro, nel vero senso della parola”.

I segni della malattia si vedono tutti: “Ho perso sette chili. Ora aspetto che mi facciano i tamponi di controllo, anche se non è ben chiara la situazione. Di sicuro, devo restare a casa per ventuno giorni da quando sono stato dimesso, e lo farò in maniera diligente. Vediamo che succede, ma mi chiedo solo una cosa: se non fanno i tamponi a persone come noi, allora a chi mai li devono fare?”. Ma come pensa, Marco, di aver contratto il virus? “Sicuramente in negozio. Da qualche asintomatico o, ancor peggio, da qualcuno che non sarebbe dovuto uscire. Per questo, ve lo dico anch’io. Restate a casa, perché è pericoloso, pericoloso veramente. Per voi stessi e per tutti gli altri. Spero che pure la mia esperienza serva a farlo capire”. Rossella e Lorenzo intanto aspettano. Aspettano di riabbracciare Marco. Ma è un’attesa diversa: certamente con meno angoscia, perché ora sanno che quel momento arriverà. E arriverà anche il momento che Marco, con il suo cappellino da baseball, riaprirà la saracinesca del suo negozio. E tornerà a essere quella luce e quell’enorme punto di riferimento per tutto il quartiere.

Ah, Marco è un figlio ‘recente’ di Multedo. Ma quando arrivi qui, non conta ‘l’anzianità di servizio’. Conta solo l’affetto e l’impegno che ci metti, l’amore che spargi. Per questo Multedo vuole a Marco un bene grande come il mondo. È questa è la cosa più sicura e garantita di tutte.

Alberto Bruzzone

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