È come un’amica lontana, che ogni tanto ci scrive, una lettera, magari una cartolina, ma ci manca e la vorremmo accanto, soprattutto a Natale. Così i ricordi si fanno più vivi, la nostalgia ci prende la mano, e con la mente si torna indietro nel tempo, agli anni dell’infanzia, quando quegli amici candidi e lievi ci facevano da coperta ideale, scendendo implacabili riempiendoci di sogni e desideri, mentre tutto intorno a noi era silenzio e candore, pace.
La neve la si attendeva fin da novembre, era il messaggero dell’inverno, l’araldo che arriva inaspettato, facendoci saltare la scuola magari per due giorni, fermi nel tepore di casa a guadare dalla finestra il giardino che imbiancava, la strada quasi scomparsa, i gatti che uscivano cauti, infilavano la zampa e subito la ritraevano scrollandola, per poi lanciarsi in salti e corse pazze, perché i loro ragionamenti, per noi poveri umani, rimangono insondabili.
Ma l’incanto avveniva al risveglio: erano spariti i rumori, non passavano macchine e dalle tapparelle filtrava un biancore sospetto, che stesse nevicando? I centimetri erano già abbondanti, 20 o 30, non si poteva far manovra, il nonno o il papà avrebbero spalato ma adesso era inutile, veniva giù che era un piacere e la nonna sentenziava: «Quand la vegn giò al menud, la vegn giò fin al cüü», ovvero se scende con fiocchi minuti può arrivare alle parti delicate. «Conciso e degenerato», avrebbe detto Woody Allen. Mentre se la neve arrivava presto, ai primi di novembre, nonna ne aveva un’altra: «Quand fioca in su la föia, fioca de mala vöja», e a fine autunno molte foglie erano ancora al loro posto sugli alberi e la neve si scioglieva quasi subito andando in acqua.
La neve univa la famiglia, e per paradosso la scaldava, con le donne di casa impegnate a cuocere pietanze energetiche e vin brulè, uscivano dagli armadi coperte mai viste dall’odor di naftalina, perché, nonostante i caloriferi, sembrava di avere sempre freddo e guardare continuamente dalla finestra non aiutava certo a scaldare mani e piedi che, chissà perché, avvertivano con il loro raffreddarsi l’appropinquarsi della nevicata.
Era il momento di indossare la giacca a vento rossa, specifica per il grande gelo e perfetta per l’accoppiata con lo slittino “Sfida” di legno, con cui facevamo pazze discese nella via dietro casa, dove il traffico era già scarso e con la neve nullo. Lo spazzaneve passava ma lasciava una bella coltre compatta e dura, una pista adatta alla velocità, con tanto di curva finale da abbordare quasi su un pattino solo. Ma il divertimento poteva crescere, perché il sabato si partiva per il Brinzio, avevamo una nostra collinetta da cui scivolare, e ogni anno ritornavamo là, dove in primavera fiorivano i narcisi e in autunno il colchico mentre in inverno i colori erano quelli dei bambini, armati di slittini e piccoli bob, berrettoni con il pon pon e guanti di lana subito fradici.
In città la giornata era ritmata dal rumore degli spalatori dei marciapiedi, e dal “soffio” della sabbia gettata sulle strade per evitare pericolose slittate di incauti senza catene alle ruote. Si camminava in fila indiana, dopo essere usciti di casa con gli stivali perché dalla nostra via non passava quasi mai lo spartineve e ci sembrava di vivere in un’isba, anche se mancava la grossa stufa a legna dove asciugare calze, scarpe e guanti come usava in Siberia.
La neve continuava a cadere e il nonno usciva periodicamente con un metro da muratore a misurarne l’altezza, 50, 60 fino a 80 centimetri in giardino era normale negli anni Sessanta e Settanta, un metro e mezzo al Campo dei Fiori e a volte anche due, c’era da scialare. Il vicino di casa, che forse aveva qualche antenato Inuit, aspettava che la neve si indurisse, e poi la divideva in blocchi, costruendo imponenti muri bianchi che si scioglievano solo a metà aprile, perché parte del suo giardino era a nord. «Sotto la neve, pane», si ripeteva in famiglia, e in molti campi delle vicinanze i cachi arancioni ancora sugli alberi, incappucciati di neve, spiccavano come piccoli fari nel biancore generale, simili a tanti palloncini di Natale.
Frugando in archivio, ci è capitata in mano una vecchia cartolina dell’albergo di Campo dei Fiori, il capolavoro liberty di Giuseppe Sommaruga, un’immagine dei primi del ‘900, con la didascalia che recita: “Grand Hôtel Monte Campo dei Fiori (alt. m. 1200 s. m.) – Stagione Invernale”, tanta neve intorno e un’atmosfera fiabesca, sugli alberi la magica galaverna. Ma in questo caso, a slittare sono gli adulti, con un abbigliamento improbabile -solo qualche sciarpa messa alla corsara- mentre le signore, tra cui una mamma con infante in carrozzina, ridono divertite, e un uomo ammantellato con un berretto di foggia militare osserva immobile come fosse la statua di sé stesso. Nessuna antenna sconcia l’edificio, elegante nella sua maestosità, e immaginiamo la sontuosa cena che attendeva gli ospiti dopo lo “sport” praticato all’esterno, il caminetto acceso, le chiacchiere e i propositi per il giorno dopo, magari una bella ciaspolata più in quota.
Da quanto tempo non abbiamo un Natale nevoso? Forse non lo vorremmo nemmeno più, la nostra vita ormai è improntata sulla velocità a ogni costo, tutto è febbrile, improrogabile, caotico, e la neve è tranquillità, ritmo blando, cadenzato, meditazione, silenzio e anche fatica, tutte cose ignare all’umanità impazzita del terzo millennio, così la Candida Dama si è allontanata da noi forse per sempre, ritirandosi in altre latitudini e non inviandoci a volte neppure una mail o un misero whatsapp, altro che lettere o cartoline. Si è sentita offesa dalla nostra arroganza, da chi vuole imitarla sparando acqua con i cannoni per accontentare gli sponsor di inutili gare ammazza foreste, offesa dalla distruzione del pianeta a opera di guerre e speculazioni, dal nostro egoismo, lei così solidale e uguale per tutti, con la sua coperta di fiocchi capace di custodire il cibo degli uomini riscaldandone il seme.
«Il cielo si sta coprendo, “la Svizzera” ha detto che domani potrebbe nevicare anche a basse quote», si dice sperando che prima o poi fiocchi anche in città, o almeno al Sacro Monte e al Campo dei Fiori, ai quali ogni varesino che si rispetti rivolge almeno un’occhiata ogni giorno. «Mah, forse dai 1000 metri in su, qui pioverà di sicuro», e si desidera con tutto il cuore di svegliarsi e vedere il cappuccio bianco sopra la Madonna del Monte, immagine felice del Natale e di trascorsi inverni sottozero, quando le nonne dicevano: «Vegn denter in cà, che foeura se barbèlla», e la tisanina era già lì bollente a riscaldare stomaco e cuore.
Era il mondo di ieri, più semplice e schietto, nel quale la neve era ospite gradita e attesa, come le rondini a primavera, le castagne in autunno e i bagni a lago in estate, faceva parte dell’ordine delle cose, oltre a ispirare pittori e fotografi e perfino musicisti. Oggi sapremmo accoglierla di nuovo con garbo, come si dovrebbe a una bella signora altera ed elegante? Le imputeremmo subito il “puccia puccia” dei marciapiedi non più puliti dagli spalatori, l’onere di andar di pala per sgomberare il cancello dal mucchio che lo spazzaneve gli ha gettato davanti, la rabbia di dovere cambiare le gomme alla macchina o di sistemare le catene alle ruote, i ritardi dei treni e degli autobus, i bambini isterici in casa tutto il giorno senza la scuola o l’asilo, il postino che non passa e aspettiamo quel pacco da giorni, e magari anche tutto quel silenzio ovattato cui non siamo più abituati, così assuefatti a rumori e fastidi di ogni sorta.
Ma la vorremmo davvero una bella nevicata di un metro, o è soltanto un lambicco intellettuale, un desiderio di carta figlio della nostra cultura che associa il Natale a fiocchi copiosi, fuochi di camino e zuppiere fumanti alla Charles Dickens? Per il momento le previsioni natalizie parlano di un autunno infinito, cielo grigio e acquerugiola novembrina, con giornate più fredde ma asciutte in arrivo dalle parti di Capodanno. La Signora in Bianco se ne sta tranquilla più a nord, ma anche lì il riscaldamento globale ne minaccia lo slancio, con gli iceberg che si sciolgono come ghiaccioli in agosto. Rimangono cartoline e fotografie, ricordi epici come quello del 1985, i racconti dei padri a narrare del lago di Varese tutto gelato con gite in automobile fino all’Isolino, mentre i millennials più giovani la neve a Varese non l’hanno nemmeno mai vista, spolverate di qualche centimetro a parte.
«In fondo che cos’è la neve? Un po’ di freddo e tanta infanzia», scrive il poeta Christian Bobin. «Nessuna coperta nessuna al mondo, sa ricoprire come fa lei: la neve è la mamma che vorrei», chiosa invece Vivian Lamarque, che ci trova d’accordo. La mamma vera non l’abbiamo più, ma ci piacerebbe che prima o poi quella fatta di fiocchi scendesse di nuovo a farci una carezza e a ricoprirci con la sua coltre fatata, riportandoci agli anni felici della giovinezza, quando sul presepe mettevamo tanta bambagia per imbiancare le montagne di cartapesta, rifugiandoci poi sotto le coperte con la speranza che al mattino il bianco fosse totale.













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