La vendemmia 2025 si era aperta sotto i migliori auspici: vigne in salute, rese equilibrate, qualità sopra la media. Ma nel territorio delle Langhe, dove il valore di un grappolo non è solo economico ma culturale, il tema del prezzo dell’uva è tornato ancora una volta al centro del dibattito. Un nodo che riporta alla superficie questioni di filiera, dinamiche di mercato e il ruolo crescente dell’agroindustria.
Dentro questo scenario interviene Claudio Conterno, presidente provinciale di Cia Cuneo, che legge i dati e li collega a un quadro più ampio, capace di toccare l’intero sistema agroalimentare italiano.
“Il 2025 per le uve è una buonissima annata, ma con certi prezzi è davvero difficile mantenere in equilibrio un’azienda agricola: è un livello che non consente di coprire i costi di gestione e di mantenimento dei vigneti, tanto meno di garantire un reddito dignitoso. L’uva al chilogrammo dovrebbe costare da 1,20 euro in su, che oggi equivale al costo di produzione”, afferma. La dinamica di mercato, ricostruisce Conterno, ha oscillato in poche settimane: a luglio sembrava che nessuno volesse le uve, molti produttori hanno ceduto a prezzi bassissimi, poi in vendemmia si è assistito al fenomeno opposto. “Un sistema del genere crea incertezza e penalizza chi lavora seriamente tutto l’anno”.
Ma il tema, insiste, non può essere ridotto al solo andamento dei prezzi. In Langa, la quota reale di uve scambiate è minima: la maggior parte viene trasformata direttamente in azienda, un’altra parte passa dalla cooperazione, solo una piccola fetta arriva al mercato aperto. “Stiamo parlando del 10 per cento del totale, regolato da pochissime realtà che in pochi giorni possono creare percezioni distorte”. Da qui Conterno allarga il discorso all’agroindustria, individuando un problema strutturale: l’enorme distanza tra quanto genera la produzione agricola e quanto produce il sistema industriale che la trasforma. “L’agroindustria ci schiaccia”, osserva. Il settore primario crea circa 2,5 miliardi di valore, che diventano oltre 15 nella fase industriale. Una sproporzione che porta l’agricoltore e il consumatore a essere gli anelli più fragili della catena: il primo vede comprimersi i margini, il secondo affronta prezzi moltiplicati.
È qui che emergono i timori per la tenuta dell’intero sistema agroalimentare italiano. “Se si lascia morire chi produce, non si potrà più raccontare al mondo una storia che non esiste. Non puoi vendere pasta ‘made in Italy’ quando dentro c’è lo 0,8 per cento di grano italiano”. Un paradosso che, secondo Conterno, rischia di sgretolare proprio il posizionamento internazionale che ha garantito forza ai grandi marchi. L’altra preoccupazione riguarda le aree marginali, quelle dove la viticoltura non è la sola economia. “Se non garantiamo redditività, alcune zone rischiano di non essere più coltivate. Ed è un danno irreversibile: quando un territorio smette di produrre, non torna indietro”.
A questa fragilità si somma il tema dell’innovazione: robotica, digitalizzazione, tecnologie di precisione sono già una realtà, ma richiedono investimenti. “Non si può parlare di sostenibilità e cambiamento climatico se poi non garantiamo margini alle aziende. È impossibile evolvere un settore che lavora senza reddito”. Infine, un passaggio sulla PAC, oggi percepita come un sostegno essenziale alla sopravvivenza delle aziende: “La PAC non nasce per mantenere in vita l’agricoltura, ma per farla evolvere. Se diventa un reddito, abbiamo un problema serio”.
La conclusione è un invito a sedersi a un tavolo, non per uno scontro ma per una ridefinizione collettiva: “Noi viviamo di questa situazione qui. Abbiamo produzioni piccole e buone: facciamo attenzione a non rovinarle, perché se le perdiamo non le ricostruiremo più. E qualcun altro nel mondo farà ciò che non sapremo più fare noi”.



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