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Basket | 11 ottobre 2025, 21:17

Una stretta di mano al monossido di carbonio. No alarms and no surprises

IL COMMENTO DI FABIO GANDINI - Dalla storia del rock a Masnago, giusto per qualche riflessione. Su Milano che fa la Milano e su Varese che non riesce a fare la Varese, su Moody che è una… “conferma” e sul vero caso di questo inizio stagione

Una stretta di mano al monossido di carbonio. No alarms and no surprises

I'll take the quiet life, a handshake of carbon monoxide. No alarms and no suprises, no alarms and no suprises, no alarms and no suprises, Silent. Silent. (La traduzione: Mi va bene una vita tranquilla, una stretta di mano al monossido di carbonio. Niente allarmi e niente sorprese, niente allarmi e niente sorprese, niente allarmi e niente sorprese, silenzio. Silenzio).

È il 12 gennaio 1998 e i Radiohead “sparano” fuori, improvvisamente, un capolavoro destinato a entrare nella storia della musica. Si intitola “No surprises”, nessuna sorpresa, brano di punta di "Ok computer”, album unanimemente considerato dalla critica uno dei migliori degli anni novanta, nonché uno dei migliori di sempre nell’ambito del rock.

È melanconico l’incedere del gruppo inglese, note e parole: teorizza una vita tutta uguale, a cui adattarsi, nel bene ma soprattutto nel male. Nessun allarme e nessuna sorpresa, nessun allarme e nessuna sorpresa. Silenzio.

Nessun allarme e nessuna sorpresa: senza neanche troppa melanconia, per la verità, ma è la precisa descrizione di questa serata al Lino Oldrini.

Nessuna sorpresa, iniziamo da qui. E iniziamo da Milano, perché bisogna essere onesti: Milano ha fatto la Milano. Qualche schermaglia iniziale, poi un’autostrada davanti presa dritta per dritta facendo quello che una corazzata del genere dovrebbe sempre fare: prendere il largo con la velocità di esecuzione, con la messa a fuoco e poi lo sfruttamento effettivo di ogni possibile vantaggio fisico e tecnico, il tutto condito con la classe dei singoli e il proficuo ostruzionismo del gioco altrui.

Succede alla fine del primo quarto: da lì in poi la squadra di Messina non si volta, giustamente, più. Il seme della vittoria è già ben piantato.

Varese, in tutto questo, guarda. È il suo peccato. Guarda non nel senso che non si impegna, ma nel senso che non riesce a fare nulla che possa guastare i piani dei messiniani. In difesa viaggia a corrente alternata, va subito sotto a rimbalzo e in attacco non trova mai alcun accenno di coralità. Tira male, ma quanti sono i tiri puliti presi? Questo è il punto.

E quanto merito va alla retroguardia di Milano, dopo i 105 punti segnati a Sassari? Scusateci: a domande di questo genere, ovvero se sia nato prima l’uovo o la gallina, stasera non riusciamo e non vogliamo rispondere.

Piuttosto: allarmi?

Per noi sono le stesse che risuonavano sei giorni fa, pur nella gioia delle braccia alzate. Stephan Moody sta riuscendo nell’impresa di interpretare uno dei peggiori inizi di un singolo giocatore straniero in maglia varesina della storia biancorossa. Stavolta ogni suo tentativo di entrare in partita viene respinto con perdite dal suo stesso incedere, come se a ogni passo rimbalzasse contro un muro di gomma.

Non ha il tiro da fuori, non batte l’uomo: così è inservibile. E non serve nemmeno scriverlo: lo sanno tutti, anche coloro che l’hanno preso. Anche da Moore sono solo sdeng dai 6.75, ma l’uomo di Memphis è vivo, è un fattore difensivo, energetico, atletico.

Su Freeman aspettiamo. Il vero caso, oltre a Moody, è chi ancora non ha giocato: Renfro non è infortunato, Renfro ha paura. E questa paura sta ritardando oltremodo la formazione definitiva di un collettivo dal quale non si può prescindere.

Fabio Gandini

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