C’è stata una bellezza speciale, ieri, alla Tre Valli Varesine. Non solo quella di una corsa vinta da un fuoriclasse assoluto come Tadej Pogacar, ma quella che si avverte quando senti che è stata scritta una pagina di storia e, ancora di più, di umanità.
Un anno fa, chi si ricorda che esiste il ciclismo solo per un giorno all’anno aveva dato del traditore a Pogacar, reo di essersi fermato sotto il diluvio e di aver “costretto” il gruppo a fare lo stesso. Lui non aveva risposto con rabbia, non aveva cercato scuse. Aveva solo detto a Renzo Oldani, l’uomo che questa corsa la sogna e la costruisce ogni anno, che sarebbe tornato. E sarebbe tornato per vincere.
E l’ha fatto. Con quella naturalezza che appartiene solo ai campioni veri. In un mondo in cui le promesse valgono niente, lui la sua l’ha mantenuta. E in quel gesto semplice, in quella promessa onorata, c’è tutta la poesia dello sport.
Poi c’è stata la bellezza di Varese. Ma quella, in fondo, la conoscevamo già. Quello che abbiamo scoperto - o forse riscoperto - è la bellezza della sua gente. Dopo anni in cui le lamentele per i disagi sembravano sommergere ogni entusiasmo, in cui bisognava quasi litigare per spiegare quanto fosse importante la Tre Valli, quest’anno qualcosa è cambiato.
La città ha accolto, ha partecipato, ha sorriso. I balconi pieni, le strade vive, i bambini che agitavano le mani ai corridori come se ognuno di loro stesse pedalando verso un sogno. La gioia, finalmente, ha superato la rabbia di pochi.
Che sia un segno? Forse sì. Forse è la prova che quando la passione vince sull’abitudine, quando la comunità si riconosce in qualcosa che la rappresenta, tutto diventa possibile.
E poi, permettetemi una dedica personale. A un amico che alla Tre Valli non c’era, ma che c’è sempre stato e avrebbe voluto e dovuto esserci anche quest’anno. Ezio Bozzolo, autista del pullman della Israel Premier Tech, uno di quelli che vivono il ciclismo dal basso, con la stessa dignità e fatica dei corridori. Ezio non c’era perché qualcuno, in nome di una libertà urlata e travisata, ha impedito a lui e a tanti altri (corridori, meccanici, massaggiatori della sua squadra) di fare semplicemente il proprio lavoro. Che schifo. Perché le battaglie per la pace non si fanno così, non si combattono impedendo agli altri di lavorare, di vivere, di inseguire la propria passione. La pace si costruisce con il rispetto, non con la prepotenza.
E allora questo mio piccolo spazio, oggi, lo dedico a Ezio e a tutti quelli come lui. Perché il ciclismo, come la vita, è fatto di chi pedala, ma anche di chi aspetta, guida, prepara, sostiene. È fatto di promesse mantenute e di rispetto. È fatto, ancora e sempre, di umanità.
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