Erano due gli imputati in tribunale di Cuneo ritenuti dalla Procura i presunti complici dell’uomo che aveva confessato di aver preso parte alla rapina in casa di un’anziana a Roccaforte Mondovì, nel maggio del 2021.
L’uomo, L.A., cittadino italiano e residente a Guarene, era stato rintracciato grazie alle telecamere all’imbocco della frazione Prea, il luogo in cui era stato messo a segno il colpo. Reo confesso, nel corso del suo interrogatorio confessò anche i nomi di A.R., classe 1993, e M.B., classe 1986, entrambi di origine albanese e residenti ad Alba che però, all’esito del processo, sono stati entrambi ritenuti estranei ai fatti. I giudici li hanno infatti assolto per non aver commesso il fatto.
Ad alimentare i sospetti dei Carabinieri era stato il transito di una Volkswagen Polo di colore grigio metallizzato dai varchi della vicina Santa Lucia, verso Villanova, in orario compatibile con la rapina. L’auto, poi ritrovata incidentata, si scoprì poi essere di proprietà del padre di L.A.
Sulle spalle dei due imputati, secondo la Procura, che aveva chiesto la condanna di entrambi a a sette anni e mezzo di carcere, oltre al pagamento di 3.600 euro di multa, avrebbero pesato le intercettazioni e le celle agganciate dai loro cellulare.
Alla vittima della rapina, una donna ormai deceduta, che quella notte fu aggredita alle spalle, venne strappata la catenina che teneva al collo e sottratto il portafoglio con 50 euro.
Alcuni testimoni ascoltati poco dopo avevano riferito di aver visto due uomini di circa trent’anni nelle vicinanze dell’abitazione. Uno, verosimilmente M.B., indossava una tuta nera, poi sequestrata, che oltre al cappuccio avrebbe avuto una scritta sulla schiena. L’altro, A.R., avrebbe avuto i capelli corti rasati da un lato. Indizi insufficienti però secondo la difese, considerato, oltre alla contraddittorietà delle persone sentite nell’immediatezza dei fatti, che nessuno dei testimoni aveva riconosciuti gli uomini in aula.
“L.A. è l’unica persona di cui abbiamo certezza si fosse recato nel paese - ha sostenuto l’avvocato di A.R.- ha cercato di depistare le indagini e far cadere la colpa su due estranei. Un impianto accusatorio che si basa solo su mere presunzioni e sulle dichiarazioni di un coindagato che ha posto in essere un’astuta mossa per escludere se stesso”.
“La tuta nera che mi è stata sequestrata - ha spiegato ai giudici M.B.- era un regalo di mia moglie: aveva solo una piccolissima scritta davanti e nessuna dietro”. Argomento, questo, che si è rivelato fondamentale per la difesa dell’uomo, tanto da farlo assolvere: “Una vicenda che viene raccontata in maniera completamente diversa da tutti”, ha concluso il legale.
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