Oltre 200 volte in azzurro, 176 in biancorosso (inteso come quello varesino), per passare alla giacca e cravatta da dirigente e da consigliere federale. Le vite cestistiche di Giacomo Galanda sono state molteplici, ma quando si pensa a una Nazionale vincente uno dei volti e dei nomi che subito vengono alla mente è il suo.
Lui che c’era nel 1999, pochi mesi dopo aver contribuito al decimo Scudetto varesino, l’ultima volta che l’Italia vinse la rassegna continentale, la cui edizione 2025 è ai nastri di partenza. Scatterà domani con i gironi A e B (a Riga e Tampere), e giovedì con i gironi C e D (a Limassol, dove ci sarà l’Italia, e Katowice), il torneo che il 14 settembre in Lettonia decreterà la Nazionale vincitrice.
Giacomo Galanda prova a fare le carte alla Nazionale guidata dal ct Pozzecco (esordio giovedì alle 20.30 contro la Grecia), toccando anche il tema dei risultati delle nazionali giovanili e del mondo della pallacanestro "dominato" dall’NBA. Impossibile, poi, esimersi dal chiedergli un parere sulla Varese attuale e su quella da lui vissuta.
Tu che la maglia azzurra l'hai indossata tante volte, come si sente un giocatore alla viglia di un torneo come gli Europei?
I tempi sono cambiati. Io ho sempre pensato che lo spogliatoio fosse un luogo sacro, ma oggi con telecamere e fotografie ovunque è un racconto continuo, e cambia così il rapporto che hai con il mondo esterno, che tu abbia davanti dieci persone o milioni. Questo ha cambiato molto l’approccio dei giocatori, c’è un sentimento diverso, sicuramente meno pressione per il risultato e più sul rendimento singolo, visto che comunicando in continuazione si rende conto di quello che si fa. Dall’altro lato, la Nazionale sta raccogliendo consensi, piace, c’è un racconto, anche se mancano i risultati: non c’è quella pesantezza del "Se non si vince è un disastro". Dobbiamo sostenere il movimento, gli strumenti di comunicazione ora sono diversi e giustamente si vive molto di più l’evento. Chiaro che, quando poi la tensione del campo sale, le dinamiche tornano a essere sempre le stesse. Un evento come l’Europeo si inizia in maniera diversa: ai miei tempi se il giorno della partita ti mettevi al telefono l’allenatore ti guardava male. Ma più si va avanti con la competizione e più le dinamiche tornano a essere le solite.
Cosa ne pensi di questo gruppo e quale credi possa essere l’obiettivo reale degli Azzurri?
Non vorrei portare sfiga… È un gruppo che mi piace moltissimo, abbiamo giocatori veramente forti. Possiamo solo obiettare che non abbiamo un vero centro di stazza, ma per il resto abbiamo veramente tutto. È una squadra piuttosto forte, tanto che nel ranking partivamo da undicesimi e in una settimana siamo saliti sesti. Le prime amichevoli non erano troppo impegnative, ma si è vista la qualità dei giocatori e l’esperienza di questo gruppo, che ormai è tanti anni che è insieme. È il momento giusto…
Impossibile non chiederti un parere su Pozzecco ct. Come lo stai vedendo in questo ruolo?
Mi reputo un suo amico vicinissimo. La pallacanestro l’abbiamo vista in maniera a volte diversa e a volte simile, ma credo che abbia un grandissimo talento e che sappia allenare. Penso che sia unico, il suo non è un modello replicabile, ha un grande carisma. Alla fine conterà il risultato, ma penso che ha portato molta attenzione sulla Nazionale con il suo modo di fare e le sue capacità. Di Poz ce n’è uno, porta grande entusiasmo, e in questo momento simo tutti suoi tifosi.
Ogni estate c’è sempre qualche episodio che fa parlare del rapporto tra nazionali, club e leghe. Cosa ne pensi e cosa si può fare per migliorare la situazione? Credi che la Nazionale debba avere sempre la priorità?
Sì, la Nazionale, secondo me, ha sempre la priorità davanti ai club. Non è bello che la cosa non sia normata, e che quindi, inevitabilmente, a volte vengano fuori questi discorsi tra club e nazionali e leghe. Questa pallacanestro è svantaggiata o avvantaggiata, in base a da dove la si guarda: esiste l’NBA, una lega privata che conta più della FIBA, cosa che nel calcio non succede, e che ha un giro enorme di interessi, basti vedere il caso di Antetokounmpo e dell’assicurazione. C’è un discorso di valori diverso: una lega privata che conta più di tutto il resto crea delle anomalie, e a caduta si ripercuote su tutte le leghe. Non so quanto sia una cosa giusta, ma siamo di fronte a una realtà "falsata" da un colosso come l’NBA.
In estate le nazionali giovanili hanno raggiunto ottimi risultati, tra tutte l’Under 20 maschile, laureatasi campione d’Europa. Cosa ne pensi dell’esodo dei nostri talenti e del fatto che non tutti trovino spazio nei nostri club?
Le nazionali giovanili hanno sempre reso, facendo delle buone figure. È stata un’estate particolarmente proficua: è stata un Under 20 fatta di giocatori che hanno optato per giocare soprattutto in A2 e B, ma hanno giocato, che la cosa più importante. Penso a Ferrari, che è stato uno dei migliori giocatori del campionato di A2. Penso anche agli Under 16 e agli Under18, ma anche alla femminile, da cui ci si aspettava un traguardo così, visto che stanno raccogliendo da anni buoni risultati. Le annate buone sono arrivate e stanno cominciando a scrivere la loro storia. La crisi di risultati è arrivata dalla mancanza di attenzione ai settori giovanili, non è un caso strano che non abbiamo più vinto, anche se i talenti, poi, in qualche modo vengono fuori lo stesso. Sul fatto che tanti ragazzi scelgano il college: l’acqua scorre verso la valle, e non verso la montagna, è quindi una cosa inevitabile, e non penso nemmeno che sia così sbagliato. Jasikevicius aveva fatto il college negli USA, stessa cosa Kaukenas, così come tanti spagnoli, serbi, croati… Il mondo va avanti così da tanto tempo. Dopotutto se le opportunità sono là… A me piaceva il mondo del college, ai miei tempi i ragazzi crescevano senza pensare ai contratti, ma è ovvio che oggi sia diverso.
Passando a Varese, come hai visto da fuori il cambiamento avvenuto nel finale di stagione con l’arrivo di coach Kastritis?
Ho seguito la squadra in tv. Non conoscevo benissimo il coach, ha fatto un buon finale di stagione. Per la sua mentalità non era proprio fatto per la squadra che era stata costruita, ma tutti sono stati molto bravi a trovarsi e andare sulla strada corretta. Più che la valutazione della scorsa stagione, sicuramente chiusa in maniera positiva, sarà interessante vedere la prossima, con un roster costruito da lui insieme alla dirigenza. Penso che da ora ci sarà un po’ più da valutare per quanto riguarda il suo operato, ma finora ha fatto molto bene, e gli auguro di continuare così.
Pensi che con l’attuale roster Varese possa puntare almeno a una salvezza tranquilla?
Le squadre con budget non enormi, e che quindi possono permettersi meno correttivi a stagione in corso, devono essere molto più brave sul mercato, ma anche avere la fortuna di non incappare in infortuni e imbroccare le chimiche giuste. A fronte di questo, a inizio anno, con molte squadre che hanno cambiato parecchio, le valutazioni sono difficili. Le amichevoli sono relative, possono dare certe indicazioni ma poi, in un campionato come il nostro, rimane difficile fare pronostici. Direi comunque che Varese dovrebbe appartenere a quella fascia delle squadre sopra la zona retrocessione anche se, come già detto, fare pronostici prima della stagione è molto difficile.
Sono passati ventisei anni dallo Scudetto e quattordici dalla tua ultima stagione a Varese. Guardandoti indietro, cosa significa, oggi, questa città per te?
Per me è stato fantastico stare a Varese, soprattutto la prima esperienza, lo Scudetto è stato una cosa clamorosa, per tutta una serie di fatti. Ovviamente per me è stata una seconda casa, ho incontrato persone incredibili, veri amici che tuttora sento parte della mia famiglia e a cui sono molto legato. Penso che Varese mi abbia dato più quanto le abbia dato io, è così quando giochi per un club che ha una storia così importante. Sono stato anche capitano e sono contento di come sono andate le cose, è stato bellissimo in ogni aspetto e sicuramente tanti lo ricordano. Mi sento molto legato alla città, soprattutto quella di vent’anni fa, i ragazzi di oggi magari non sanno nemmeno chi è Galanda. I ricordi sono sempre vivi e forti.
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