Il Nazionale

Politica | 14 giugno 2025, 17:00

Anche una braidese bloccata al Cairo: stava raggiungendo la Global March to Gaza

Insieme ad altri attivisti vorrebbe arrivare a Rafah per chiedere l’apertura del valico e l’ingresso di aiuti umanitari nella Striscia. La sua testimonianza

Anche una braidese bloccata al Cairo: stava raggiungendo la Global March to Gaza

Volevano unirsi alla carovana internazionale diretta a Rafah e offrire sostegno alla popolazione di Gaza, ma sono bloccati in Egitto.

È la storia degli attivisti, partiti da 54 Paesi tra cui l’Italia, per la Global March to Gaza, la marcia internazionale in solidarietà con la popolazione palestinese. La partenza da Il Cairo prevedeva l’arrivo al confine il 15 giugno, ma si denunciano fermi e rimpatri da parte delle autorità egiziane.

La Global March to Gaza, che si svolge in coordinamento con la carovana terrestre Sumud e la missione della nave Madleen, mira a ottenere l’apertura del valico di Rafah attraverso negoziati con le autorità egiziane, coinvolgendo Ong, diplomatici e istituzioni umanitarie. Secondo gli organizzatori, circa 150 italiani si sono uniti alla mobilitazione, insieme a migliaia di partecipanti provenienti soprattutto dai Paesi del Maghreb.

Linda Ansaldi, 39 anni, di Bra è coinvolta in questa difficile situazione insieme al gruppo lombardo (e non solo) di cui fa parte e con il quale ha firmato la cronaca delle sue giornate votate a chiedere giustizia per Gaza, spingendo per l’apertura del valico e l’ingresso di aiuti umanitari nella Striscia. Ecco la testimonianza.

"Mi chiamo Linda Ansaldi, classe ‘86, nata a Bra (Cuneo). Inutile dire quanto la causa palestinese soprattutto negli ultimi anni mi sia stata a cuore, come quella di tutte le persone in questo mondo che muoiono senza dignità, non visti dagli occhi di chi ha una vita privilegiata.

Nella notte tra l’11 e il 12 giugno sono partita per Il Cairo da sola, sono arrivata alle 5.30 del mattino. In aeroporto, ho incontrato un gruppo di italiani lì con la stessa motivazione.

Ci hanno preso il passaporto, ci hanno fatto aspettare almeno un’ora in un angolo, quando poco prima la polizia con i manganelli ha circondato un gruppo di altri occidentali e turchi che sono stati spintonati fuori dall’aeroporto e non sappiamo esattamente dove siano finiti. Dopo, ci hanno riconsegnato i passaporti e ci hanno detto che avremmo potuto entrare a Il Cairo. Gioiamo. Stolti.

A 5 metri dall’uscita, ci perquisiscono di nuovo, ci aprono gli zaini, ci requisiscono il passaporto un’altra volta e ci fanno stare in un angolo della stanza per ore. Dieci ore sequestrati senza acqua (perché non ci facevano riempire le borracce), né cibo né la possibilità di andare in bagno liberamente.

Insieme a noi c’erano altre persone, tra cui alcuni spagnoli che nella notte, mentre dormivano, sono stati prelevati dal loro hotel e riportati in aeroporto. In alcuni momenti il clima si è fatto davvero critico, come quando hanno portato via a forza dei tunisini e sono volati colpi di manganello che hanno lasciato per terra un ragazzo con un colpo al collo (e che è rimasto per ore steso a terra senza ricevere assistenza medica). Scopriamo, infatti, che in una piccola stanzetta erano chiuse 50 persone di diverse nazionalità, alcune da 24 ore. C’erano anche persone molto anziane a cui è stato negato il cibo per poter assumere delle medicine. Nel pomeriggio, interviene il Console italiano a Il Cairo, Novellino, che dopo parecchie trattative riesce a farci uscire CON IL PASSAPORTO. Ma è stato chiaro: “Non provocate ulteriormente le forze dell’ordine, perché non avrete lo stesso trattamento ‘gentile’ una seconda volta”.

Non ci aspettavamo un trattamento così duro dal momento che il governo egiziano aveva mostrato vicinanza alla nostra causa e condannato le azioni di Israele; tuttavia, nella notte tra l’11 e il 12, lo stesso governo di al-Sisi ha ricevuto chiare direttive da Israele: “Nessuno dovrà marciare su Rafah!”.

Usciamo, arriviamo negli appartamenti che erano stati riservati. E attendiamo direttive. La giornata del 12 è stata stancante, dopo una notte in bianco in aereo e il trattamento in aeroporto i nervi di tutti erano a fior di pelle. Io sono iscritta alla lista piemontese, ma alla fine finisco nel gruppo lombardo.

La delegazione italiana è sparpagliata, siamo tutti divisi. Cerchiamo comunque di riorganizzarci in riunione con gli altri fino alle 2 di notte. La Global March ci fa sapere che per le 10 di stamattina sarebbero arrivate direttive a livello globale.

Oggi il clima è teso e molto confuso. La polizia presidia l’uscita del nostro palazzo, salgono a fotografare il passaporto di ognuno di noi. Se usciamo dal palazzo, siamo controllati a vista da agenti in borghese e seguiti.

Come Global March to Gaza, ci ritroviamo a vivere un conflitto d’intenti tra il grande desiderio di sostenere la causa palestinese e allo stesso tempo di rispettare la legge egiziana e di tutelare la nostra sicurezza e gli accordi firmati personalmente nel momento in cui abbiamo aderito al movimento.

Molte delegazioni oggi pomeriggio si sono avviate verso la città di Ismailia per un presidio generale, ma da quello che sappiamo molti sono stati bloccati e trattenuti ai vari check-point lungo la strada e PRIVATI DEI PASSAPORTI. Coloro che invece sono riusciti ad arrivare a Ismailia sono circondati dalle forze dell’ordine.

Nonostante l’incertezza, le indicazioni dei nostri rappresentanti italiani però sono chiare: per ora gli italiani hanno deciso di non partecipare al presidio di Ismailia, preferendo attendere direttive chiare dalla delegazione Italia. In attesa di ulteriori sviluppi, noi rimaniamo a Il Cairo.

Con la Global March to Gaza non raggiungeremo Rafah, certo. Però stiamo impiegando tutte le nostre energie fisiche, economiche, emotive e mentali per poter portare avanti l’obiettivo che ci ha condotti fino qua: l’amore per la Vita, il rispetto dell’umanità».

La crudeltà umana in una foto

Premessa: ogni parola per descrivere questa foto suona impotente, schiacciata dalla forza espressiva dello scatto di Samar Amu Elouf, premiata al World Press Photo 2025 per la miglior foto dell’anno.

Il protagonista è Mahmoud Ajjour, 9 anni, evacuato a Doha dopo che un’esplosione gli ha fatto perdere un braccio e mutilato l’altro nel cercare di avvisare i suoi, nel gridargli di mettersi in salvo durante un raid israeliano del marzo scorso. La madre del bambino ha raccontato che la prima cosa che ha detto quando ha capito le sue condizioni è: «Come farò ad abbracciarti?».

Il dramma di Mahmoud non è un caso isolato. Secondo le Nazioni Unite, tra ottobre 2023 e settembre 2024, oltre 16.700 bambini sono stati uccisi a Gaza, con migliaia di altri feriti o dispersi sotto le macerie. Save the Children riporta che almeno 3.100 di questi erano sotto i 5 anni, e 710 avevano meno di un anno. Questi numeri evidenziano come i bambini siano le vittime più vulnerabili e spesso dimenticate dei conflitti armati.

Lo scatto, realizzato per il New York Times, cattura non solo la mutilazione fisica, ma anche quella emotiva, diventando simbolo di una generazione segnata dalla violenza. Lui è palestinese, ma il suo sguardo e la sua tragedia sono universali: presta il suo volto a tutti i bambini la cui infanzia è devastata dalla guerra, i piccoli figli del Sudan, del Congo, dell’Ucraina… e di decine di altri luoghi della terra dove si impone pervasiva la cecità della violenza.

Il singolare, singolarissimo volto di Mahmud straccia di schianto ogni retorica geopolitica, ogni ragionamento strategico, fardelli del mondo adulto che dimentica l’essenziale: c’è un bene, un valore ultimo, che va difeso sempre.

Non esistono buone cause, né motivazioni sensate, che possano giustificare il prezzo pagato negli anni bui di questo secondo millennio da un ragazzino innocente. INNOCENTE.

Silvia Gullino

Commenti

In Breve