Il Nazionale

Cronaca | 28 marzo 2024, 21:06

Stefano Rebora bloccato e poi respinto in Egitto alla guida di una missione di Music For Peace verso Gaza

"7 ore in una cella per accertamenti senza passaporto né effetti personali. Servono accordi, missioni a rischio"

Stefano Rebora bloccato e poi respinto in Egitto alla guida di una missione di Music For Peace verso Gaza

Bloccato per più di 6 ore dentro una stanzetta all'interno dell'Aeroporto del Cairo per accertamenti da parte delle autorità egiziane, senza effetti personali né spiegazioni. E' quanto accaduto al presidente della Ong Music for Peace di Genova, Stefano Rebora, tornato solo poche ore fa in Italia dopo un lungo fermo in aeroporto che si è concluso con un respingimento. Rebora si trovava in Egitto per l'avvio di una missione umanitaria partita da Genova per raggiungere Gaza, un test preliminare in vista dello svolgimento della missione vera e propria prevista nel giugno prossimo con la quale l'organizzazione genovese intende portare un carico di beni di prima necessità sul territorio della striscia di Gaza.

Facendo un passo indietro la missione nasce a dicembre. "Abbiamo preparato un progetto, 'Cucina di strada a Gaza' - spiega Rebora - prendiamo contatti con l'ambasciata, otteniamo i permessi, mandiamo i passaporti. Insomma, non dovevano esserci problemi. Prepariamo il convoglio che è un test per capire come muoverci, il grosso è costituito da 200-250 tonnellate di materiale che prevediamo di far partire a giugno. Queste sono 60 tonnellate, due container. Quando arriviamo in Egitto due ragazzi entrano, io vengo fermato". Da lì inizia una serie di procedure, non meglio spiegate dalle autorità egiziane se non con un laconico "problemi di sicurezza". 

"Mi mettono in un angolino - continua il presidente di Music for Peace - poi dal posto di polizia mi portano in una stanzetta per gli accertamenti, mi dicono di non usare il telefono ma riesco ad avvisare per messaggio su quanto sta succedendo e a far partire la procedura. Mi fanno mettere tutti i miei effetti personali nello zaino, togliere le scarpe, la felpa. Rimango in maglietta, pantaloni e scalzo, da lì mi fanno entrare in una cella in compagnia di due persone che erano già ospiti da tempo immemore, con 4 letti a castello di legno e un bagno. Lì ci sono stato circa otto ore senza poter avere comunicazioni con l'esterno".

Solo in piena notte, grazie al tam tam avviato in Italia che riesce a contattare l'ambasciata, viene prelevato da alcuni poliziotti, con atteggiamento più collaborativo, invitato a rivestirsi e rifornito dei suoi beni tra cui lo zaino e il cellulare e riportato al posto di polizia dove Rebora riceve la visita del funzionario del consolato che nel portargli alcuni medicinali si accerta delle sue condizioni. Sarà lui a riportarlo al gate dove, altre 8 ore più tardi e scortato da 5 poliziotti, Rebora riesce ad accedere ad una bottiglietta d'acqua e un caffé: "ci avevano dato solo un the - sottolinea - prima di chiuderci dentro la prima cella".

Al gate di imbarco altre complicazioni. "Non mi danno il passaporto ma mi accompagnano sull'aereo consegnando il documento insieme al foglio di espulsione al comandante dell'aereo - prosegue Rebora - che sostiene di doverlo consegnare all'autorità egiziane e solo dopo una serie di telefonate in ambasciata il passaporto mi  assicurano verrà consegnato alle autorità italiane. All'arrivo in Italia fanno salire la polizia a bordo cui consegnano il mio passaporto, che una volta a terra mi viene riconsegnato e posso tornare a casa".

Non la prima volta, con complicazioni legate al transito attraverso l'Egitto. Nel 2014 una squadra di MfP sulla Striscia di Gaza viene costretta al rientro da una serie di bombardamenti, uscita respinta due volte dalla Guardia Nazionale e finita poi con un trasbordo dei cooperanti fino al Cairo, senza poter riottenere i passaporti né uscire dalle stanze di sicurezza fino all'intervento della Console Italiana Cecilia Bonilla Taviani. Situazione analoga che si ripete anche nel 2018.

"C'è in tutto questo un primo tema - continua Rebora - loro dicono che il problema è 'ad personam' e non con l'organizzazione ma io sono il Presidente, colui che ha l'esperienza e che organizza i viaggi e rappresento a tutti gli effetti la Ong. Questo genere di situazioni mette a rischio anche tutto quello che sono le missioni. Il secondo problema è invece più profondo. Se invece di essere il presidente di una Ong, con le conoscenze del caso delle procedure di sicurezza da attivare se succedono determinate situazioni, fossi stato un cittadino normalissimo che e per sbaglio viene confuso con un terrorista, ci ritroveremo adesso davanti a un altro Regeni?".

"Laggiù è l'inferno - conclude Rebora - ci sono un milione e ottocentomila persone in un lembo di terra senza niente, è una devastazione. Un chilo di zucchero se lo trovi lo puoi pagare 25 euro, se lo trovi un chilo di farina può costare 30 euro. E l'Egitto è l'unica strada fattibile per arrivarci e portare aiuti. Può essere stato un errore, uno sbaglio, però va corretto. Bisogna chiudere degli accordi , viviamo in uno Stato di diritto e nel momento in cui fermi un cittadino italiano devi dargli la possibilità di comunicare con l'ambasciata e glielo devi comunicare, non tenerlo bloccato allo sbando". 

Valentina Carosini

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