Undici, come una squadra di calcio: sono gli anni senza il Peo, volato via oggi nel 2012. Per lui forse è stata una fortuna: non ha visto il precipizio in cui è rotolato l’amato Varese dopo i ritrovati, fuggevoli ruggiti dell’era Sogliano-Sannino. Per noi sicuramente è stata una disdetta: quanto ci sarebbe servito uno come lui in tempi magri, alle prese con l’ennesima rinascita dalla polvere, sballottati tra pie illusioni e solenni delusioni, brevi voli e rovinose cadute, circondati da avvoltoi, mestieranti e pifferai.
L’ultima volta di Maroso a una partita è stata Varese-Albinoleffe del 17 settembre 2011, un anno esatto prima di andarsene, nel consueto angolino: quarto seggiolino dell’ultima fila in alto a sinistra, accanto al figlio Virgilio. A suo modo una giornata emblematica: vide segnare due icone dell’epoca, Neto a due minuti dal via e De Luca a due minuti dall’ingresso dalla panchina; e vide allenare dall’altra parte Fortunato, che proprio il Peo aveva lanciato da calciatore nel Legnano. L’ultimo Varese che ha visto in tv è stato quello di Maran, bello e impossibile, finalista per la A punito dalla Sampdoria in due notti stregate. L’ultima volta nel suo stadio è stata la benedizione a Castori, il 14 giugno 2012, tre mesi esatti prima di andarsene: il male aveva già vinto, eppure lui dispensò sorrisi bonari, da patriarca ineguagliabile di tutto il mondo biancorosso.
Era un’altra era geologica. In questi undici anni il Varese - costretto a ripartire da molto in basso - ha collezionato una promozione, due retrocessioni, due fallimenti societari, svariati inciampi assortiti. Se ci fosse stato il Peo, e se avessero avuto l’umiltà di chiedergli dritte, forse qualcuna di queste scottature sarebbe stata dribblata. Cos’avrebbe fatto Maroso in questo lungo limbo? Quello che fa ogni nonno che si rispetti quando c’è da badare ai nipotini: intrattenere, far giocare, e intanto insegnare. Non ci avrebbe tolto o risolto i problemi, ma ci avrebbe aiutato ad attraversarli.
Ci avrebbe raccontato storie, spesso divertenti, a volte autobiografiche, sempre educative: ne aveva da vendere lui, che a 14 anni già lavorava da un fabbro, a 15 aveva perso la famiglia (morto il fratello, separati i genitori) e a 18 il calcio (idoneità negata da un cardiologo frettoloso, giusto alla vigilia del debutto in A col Torino), finendo a sgobbare in fonderia finché, alla soglia dei 30, il Varese lo aveva pescato nell’Ivrea in C.
Ci avrebbe sussurrato consigli saggi, senza vendere sogni né magie: devoto alla dea Fatica, ci avrebbe parlato del tempo che ci vuole e dei sacrifici che servono, delle scelte intelligenti da fare e della testa bassa da tenere. Avrebbe guidato tutti alla pazienza di azzeccare i passettini uno dopo l’altro: lui, che sapeva fare con quel che aveva anche quando era poco; lui, che alla lunga si era ripreso tutto, provando e seminando felicità senza mai cercare scorciatoie.
E ci avrebbe portati a castagne, ché è pure la stagione giusta. Fin dagli esordi a Varese, nel ’63, quando il Franco Ossola aveva solo piccole tribune tubolari e attorno non c’era cemento bensì prati e boschi, al Peo piaceva passeggiare nella zona e raccogliere castagne, dividendo le buone dalle matte, che teneva in tasca come amuleti. Un rito mantenuto fino alla fine, condiviso con amici e compagni di strada, utile anche per isolarsi, riflettere, setacciare le idee.
Il Peo ci manca proprio così, come il nonno ai nipoti: è fisiologico che se ne vada, ma tutto quello che ha detto e fatto continua a parlare. Una stella polare che, se si alza lo sguardo e la si cerca, guida il cammino senza farsi vedere, perché certi legami sono eterni.
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