Il Nazionale

Cronaca | 19 marzo 2022, 15:47

In fuga da Kiev verso Rivoli: “Pc, macchina fotografica e chiavi, questo è ciò che resta di casa mia”

La testimonianza di Eleonora Trivigno, rientrata in Italia dopo aver vissuto 20 anni in Ucraina

In fuga da Kiev verso Rivoli: “Pc, macchina fotografica e chiavi, questo è ciò che resta di casa mia”

“Ho preso la macchina fotografica, il PC e le chiavi con cui ho chiuso la porta, questo è quello che mi resta al momento di casa mia” - racconta Eleonora Trivigno, italiana residente a Kiev dal 2002. Ha da poco lasciato il paese e raggiunto prima la sorella a Rivoli in provincia di Torino, dove si è ricongiunta al figlio e poi hanno proseguito verso Gagaruso, nel materano, paese di origine. 

Negli scorsi giorni una nostra lettrice, appassionata di fotografia, ci ha messi in contatto con lei e anche se la sua storia non si intreccia direttamente con la provincia di Cuneo, vogliamo raccontarla perché è una testimonianza lucida e chiara di ciò che sta accadendo in Ucraina.

Non in molti hanno voglia di parlare di quello che hanno vissuto con lo scoppio della guerra, perché ogni domanda è una nuova ferita. 

“Perché volete saperlo?” - chiedono alcuni, ma la necessità di raccontare impone, oltre al rispetto delle vittime, il dovere di spiegare al mondo e all’Europa che ciò che sta accadendo riguarda tutti noi. 

La signora Eleonora dal 2002 ha fatto di Kiev e dell’Ucraina la sua casa. Un amore nato grazie alla laurea in “Storia dell’Europa centro orientale”. 

La prima domanda, quella che in molti si pongono è ‘vi aspettavate la guerra?’. 

“Quello a cui stiamo assistendo è solo la prosecuzione di quanto era stato iniziato nel 2014.” - spiega Eleonora - “Sono otto anni che l’Ucraina vive un clima di guerra, non c’erano le bombe, ma era un’attesa, pesante, alla quale ci eravamo come abituati. Ora Putin sta continuando solo un progetto iniziato ben prima. Le domande da porsi, dovrebbero essere forse: perché mostrare l’Occidente come un nemico da combattere? A che scopo volere il controllo di uno stato che sta venendo annientato e distrutto? Se ci aspettavamo la guerra? La temevamo, ma conservavamo come la speranza che il buon senso alla fine avrebbe trionfato. Non è stato così.”

“Sono partita il 5 marzo. Non volevo lasciare la mia casa, gli affetti, la mia città. Mio figlio aveva già raggiunto mia sorella in Italia, l’ho messo in sicurezza nei giorni immediatamente successivi allo scoppio del conflitto. Alla fine ho deciso di andarmene per rispetto della mia famiglia in Italia anche se per me questo non può che essere visto come un arrivederci, speriamo tutti di poter tornare a casa, in Ucraina”.

“L’80% dei miei amici è ancora in Ucraina. Moltissimi sono intellettuali, artisti. Hanno deciso di restare per difendere la loro città, un gesto che ha un che di romantico amore per la patria che forse alcuni faticheranno a capire. A Kiev al momento c’è ancora la connessione internet, acqua, elettricità, a differenza di città come Mariupol che è completamente isolata, quindi riusciamo a tenerci in contatto con brevi messaggi: data, orario, stato di salute. Sono stanchi, fisicamente e psicologicamente, ma conservano un enorme senso di dignità”. 

Come è stato il viaggio?

“Allucinante. Ancora è difficile razionalizzare. Sono partita con un’auto che mi ha portata alla stazione dei treni in direzione Leopoli. La situazione è scioccante, non la dimenticherò mai: tabelloni dei treni spenti, una massa infinita di persone che non sapevano dove dirigersi. Rischiavi di essere schiacciato appena veniva annunciato un treno in partenza. Donne che gridavano, bambini piccoli che rischiavano di essere schiacciati. Sono riuscita a salire su un treno e dopo un viaggio di 12 ore sono arrivata a Leopoli, fortunatamente alcuni amici mi hanno ospitata alcuni giorni in un paesino a 50 km dal centro. Poi ho trovato un bus diretto in Italia e 36 ore dopo sono arrivata. Abbiamo attraversato Slovacchia, Ungheria e Slovenia: qui un gruppo di monaci della chiesa greco cattolica ha consegnato bevande calde e anche peluches per i bambini. Il tutto in silenzio. Sguardi e gesti. Non avevamo una lingua comune, nessuno si sarebbe neanche sognato di provare a comunicare in russo”.

Perché molti non vogliono parlarne?

“Il cuore non può reggere a tutto questo, a volte per sopravvivere bisogna mettere da parte, provare a dimenticare. Per molti chiedere di raccontare è un voler infierire, una mancanza di rispetto. È comprensibile. Io e mio figlio siamo fortunati perché siamo comunque cittadini italiani e sapevamo dove andare. Molti hanno intrapreso un viaggio verso il nulla”. 

Cosa si aspetta per il futuro?

“La speranza di tutti è quella che questo sia solo un arrivederci. A Gagaruso siamo stati accolti dal sindaco e da tutto il paese, siamo una piccola grande famiglia. Mio figlio riprenderà la scuola la prossima settimana, è importante ora più che mai l’istruzione. Darò una mano, in particolare come interprete per le persone che verranno accolte, intanto continuo a lavorare in Smart working. Quello di cui oggi non ci rendiamo conto è che diamo per scontato troppe cose: il lavoro, la scuola, la democrazia, la libertà di espressione.”

Arianna Pronesti - TargatoCn

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