Il Nazionale

Cronaca | 08 marzo 2022, 11:33

Rapine con pistola e fascette per immobilizzare le vittime: così agiva la "banda Vasi"

Dodici persone a processo per una serie di colpi messi a segno nel 2011 tra Varesotto e Canton Ticino. Oggi in tribunale a Varese i testimoni hanno raccontato quei momenti di paura

Rapine con pistola e fascette per immobilizzare le vittime: così agiva la "banda Vasi"

Giubbetti catarifrangenti, fascette di plastica per immobilizzare le persone, uno scooter parcheggiato fuori dai luoghi in cui si consumavano i colpi. Dal modus operandi i carabinieri di Varese, in collaborazione con la polizia cantonale, riuscirono ad identificare, nell’autunno del 2011, le dodici persone oggi a processo con accuse che vanno dalla rapina al furto, dall’estorsione alle minacce. 

Sono i membri della cosiddetta “banda Vasi”, dal nome di Filadelfio Vasi, pluripregiudicato ora in carcere, che di quel gruppo criminale, attivo in quel periodo al confine tra alto Varesotto e Ticino, era il leader. 

Sono passati tanti anni ma i ricordi delle persone che ebbero a che fare con i rapinatori, sono ancora traumatici. In Tribunale a Varese, dove il processo penale per quei fatti è ancora in corso, alcune di loro hanno testimoniato nella mattinata di oggi. 

E così, davanti ai giudici del collegio e al pubblico ministero, sono riemerse le immagini di quei concitati momenti. Agosto 2011, Arzo, Mendrisio. La commessa di un distributore di benzina associato ad un ufficio cambio sta per chiudere il turno pomeridiano. È sola, sono quasi le 20. Due uomini entrano col viso coperto da casco integrale; uno le punta una pistola, dicendole «stai tranquilla che non succede niente», l’altro svuota la cassa. Poi uno di loro estrae le fascette, legandole le mani dietro la schiena. Fanno sparire il suo cellulare e se ne vanno, con un bottino di alcune migliaia di franchi. La donna fa appena in tempo ad annotare alcuni numeri della targa. 

Poche settimane dopo, a settembre, tocca ad una gioielliera di Cantello. È metà mattina, due uomini suonano al campanello dell’esercizio. Hanno occhiali da sole e una pettorina con la scritta “finanza”. All’interno attendono alcuni minuti; ci sono dei clienti. Poi la pazienza finisce ed emerge il vero motivo della loro “visita”. Tutti i presenti vengono immobilizzati con le fascette e condotti in bagno. La proprietaria della gioielleria, oggi 40enne, viene invitata a fare in fretta con soldi e preziosi, ha una pistola puntata contro; in cassa ci sono poche banconote ma la merce esposta, su cui i rapinatori mettono le mani, ha un valore di quasi 100 mila euro. 

«Ci hanno tranquillizzati - ha ricordato in udienza, davanti ai giudici - uno di loro aveva un tatuaggio sull’avambraccio». Dall’album fotografico che il pm le sottopone, la testimone individua i due presunti autori della rapina. «All’epoca dei fatti non era stata così precisa e aveva manifestato dei dubbi circa l’identità dei soggetti», ha fatto notare, dalla difesa, l’avvocato Corrado Viazzo. Oggi il racconto è più fluido e dettagliato, senza l’agitazione del momento, ha sottolineato la donna che nel ripercorrere con la mente quegli attimi terribile è scoppiata in lacrime. 

Furono gli stessi rapinatori, una volta finiti in manette, a confermare negli interrogatori i dettagli organizzativi dei loro colpi: il ricorso alle fascette, l’utilizzo dello scooter (poi ritrovato bruciato) e delle pettorine. Dati inoltre incrociati dagli inquirenti con le immagini delle telecamere posizionate nei vari luoghi interessati dagli eventi. Tutto era partito da una serie di intercettazioni telefoniche su un traffico di stupefacenti che coinvolgeva alcuni degli odierni imputati. Nei loro dialoghi, avvenuti sempre nel 2011, veniva fatto riferimento ai primi colpi da attuare. I primi di una lunga serie.

Gabriele Lavagno

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